Rovistare nei ricordi provoca duplici conseguenze. Alcuni di essi se punzecchiati si difendono emettendo un’improvvisa ondata di calore, tanto da sembrare che le viscere si stiano per cuocere, il ritmo cardiaco scalpita e tentare di farli sbollire è operazione ardua e difficile. Altri invece, al contrario, sono iniezioni sottocutanee di lieve malinconia, infondono la suggestione del ritorno a casa, del ristoro, della serenità, hanno altra natura e altra madre, riservano brandelli di emozione più addomesticata, magari nostalgica ma meno dolorosa.
Lo stimolo per scrivere questa recensione, che più che una recensione è appunto il tentativo di descrivere un ricordo, me l’ha fornita una “memoria” del secondo tipo, registrata con un piccolo apparecchietto che avevo portato con me ad un concerto, durante la prima tournée teatrale di Fabrizio De André.
Era l’aprile del 1993 il teatro era colmo di gente venuta da molteplici luoghi e di molteplici generazioni: c’erano ragazzini che cantavano inaspettatamente a memoria “La guerra di Piero” e persone ormai mature che tra i due tempi del concerto ricordavano la genialità di “Tutti morimmo a stento” e de “La Buona Novella”. Poi, si sa, in ogni teatro che si rispetti non mancano mai le signore incipriate, imparruccate, impellicciate, ingioiellate, insomma in!, adagiate con la loro fredda vanità sulle poltroncine di velluto, attente più agli sguardi degli astanti che alla musica di quel geniaccio seduto sul palco, ma questa e tutt’altra questione.
Il concerto era diviso in due tempi e i protagonisti delle canzoni erano raggruppati a seconda del sesso, come una volta era usanza fare in chiesa: le donne nella prima parte dello spettacolo e gli uomini nella seconda. La prima parte del viaggio partiva e da subito si iniziavano ad esplorare i meandri più profondi della vita, cercando di cogliere i suoi personaggi e le loro verità, la prima tappa era un assaggio della Buona Novella con il “Laudate Dominum”, “L’infanzia di Maria” e “Tre madri” con tutta quella tremenda umanità che De André era genialmente riuscito a filtrare dal sacro dei vangeli ufficiali, tramite una rilettura di quelli apocrifi. Poi c’erano due intensissime traduzioni da Leonard Cohen: “Nancy” e “Giovanna d’Arco” introdotte da un suo modo di vedere l’atto del tradurre:
".. Ho sempre pensato che quando un autore non è abbastanza in vena per assumersi l'onere, la responsabilità di un'opera in proprio, sia bene che traduca altri colleghi che si esprimono in lingue diverse dalla nostra. Si raggiungono nell'immediato due scopi sicuri, quello di esercitarsi e quello di dimostrarsi anche soggettivamente umili, credo che senza umiltà non si possa fare bene nessun tipo di mestiere… poi si raggiunge anche un altro scopo credo oggettivamente utile a tutti, che è quello di divulgare quel poco o quel molto di poesia che può esserci nelle canzoni di autori che si esprimono in lingue straniere. Ci sono molti modi di tradurre… io me ne fotto abbastanza della traduzione letterale, anzi non me ne importa proprio niente, cerco di entrare il più possibile nello spirito della canzone e attraverso la canzone stessa addirittura cercare di raggiungere lo spirito di chi l'ha composta. Sono confortato nel mio non correttissimo modo di agire da quello che diceva il maggiore critico letterario del nostro secolo, Benedetto Croce, il quale distingueva le traduzioni in brutte e fedeli e in belle e infedeli e io di fronte a quello che personalmente reputo essere il bello sono disposto a qualsiasi perfida infedeltà”.
Parlava dell’universo femminile citando Madame De Staël e parlando dei sacrifici con cui le donne da sempre sono costrette a fare i conti:
"Ho sempre considerato il mondo femminile, le donne come il simbolo del sacrificio: il sacrificio della maternità, una malattia sconosciuta a noi uomini, una malattia che dura nella sua fase acuta per nove mesi e poi mi pare che continui per tutta la vita. Un altro sacrificio, forse il più terribile da parte di una donna è quello del prostituirsi … credo che addirittura si possa dire che attraverso questo tipo di dolore si può raggiungere la santificazione (applausi) vi ringrazio anche da parte delle puttane, che molte delle mie canzoni hanno ispirato. E infine un altro sacrificio, se ne era perso l'uso negli ultimi anni ma da un pò di tempo a questa parte è tornato di moda, rispettare il tabù della verginità, forse non è soltanto una moda forse c'è di mezzo anche il problema dell'aids, fatto sta che le donne, le ragazze soprattutto, si sacrificano a mantenere la verginità, quindi non è più come otto, dieci o venti anni fa quando si diceva come battuta che si poteva considerare vergine ormai soltanto una bambina di quattro anni che corresse molto più in fretta di suo fratello. Ma di battute sulle donne se ne possono fare tante, si può dire per esempio che gli scapoli le conoscono molto meglio degli uomini sposati, altrimenti si sarebbero sposati. Forse la più cattiva di tutte forse per il fatto che l'ha fatta proprio una donna la fece un'intellettuale della fine del settecento Madame De Staël alla quale quando chiesero che cosa ne pensasse della sua condizione femminile rispose sono molto contenta di non essere un uomo altrimenti mi sarebbe toccato in sorte di sposare una donna…”.
E poi il cammino poetico all’interno dell’universo femminile continuava con “Le passanti”, “Bocca di rosa”, “Marinella”, alternate da scrosci di applausi, sempre più partecipi e intensi per un De André che appariva sereno: da alcuni anni aveva smesso col bere e in un’intervista del periodo diceva che si era quasi riappacificato col pubblico, iniziava a divertirsi anche ai concerti, cosa che fino a qualche anno prima, sosteneva con la sua solita rude ma garbata schiettezza, rappresentassero più che altro una necessita per mandare avanti la sua amata azienda in Sardegna.
C’erano sorrisi e battute, come quando si accorse che la chitarra era scordata e allora:
“Il problema è che gli animalisti ormai ci vietano di usare il budello di montone per fare le corde della chitarra, gli ambientalisti non vogliono che si usi il nylon, allora non ci sono rimasti altro che li spaghetti ma sono difficilissimi da accordare!”.
Ed ecco il secondo tempo e il cammino con De André-Virgilio riprendeva, portandoci a vedere gli uomini che a detta sua sono il simbolo della prevaricazione, a causa di un’educazione che ha instillato, quasi geneticamente, la propensione alla violenza. E così si andava a trovare “Mégu Megùn”, “Don Raffè”, “Tito”, “Piero”, “Michè”, icone rappresentative delle debolezze e delle grandezze dell’uomo, cose che, come si sa, molto spesso coincidono. Nulla era lasciato al caso e anche in un concerto, come in un suo disco, tutto aveva un senso ben preciso, ma forse con De André qualunque raccolta di suoi brani è destinata a formare un concept, quindi una “raccolta a concetto” dove al centro di tutto vi è proprio colui che sta ai margini: un magnifico esempio di cristianità!
E nell’ultimo bis a luci accese presentava “Andrea”, il soldato che “raccoglieva violette”, affermando:
“Questa canzone la dedichiamo a quelli che Platone, un pò più poeticamente di noi chiamava i “figli della luna”, sono quelli che noi invece chiamiamo gay o con una certa qual sorta di strano compiacimento ”diversi” o addirittura “culi”. Mi fa piacere cantare questa canzone a luci accese, anche a dimostrazione del fatto che oggi in Europa, almeno in Europa, ciascuno può essere semplicemente se stesso senza il bisogno di vergognarsi”.
Era davvero emozionante, per me, allora sedicenne, capire come dalle canzoni potessero nascere degli stimoli che andavano a solleticare quella preziosa curiosità che ti porta a leggere l'antologia di Spoon River e conoscere quella meravigliosa donna che era Fernanda Pivano, oppure i vangeli apocrifi, ad ascoltare Brassens e Cohen, e tutta quell'arte che contribuisce fortemente a non farti usare più la parola tolleranza, ma la parola rispetto. E’ questa la grandezza di De André, una grandezza che va ben oltre le sue canzoni, anzi che inizia con le sue canzoni. Questo trasmettere cultura ha a che fare con la formazione dell’individuo, i suoi brani e le sue parole possono essere o meno poesie ma sono indubbiamente ponti verso la conoscenza, e scusate se è poco.
Speriamo che si decidano ad appiccicare su disco tutto questo, forse dobbiamo aspettare pazienti il prossimo anniversario… probabilmente pochi lo hanno ascoltato quando, a proposito dell’enorme successo della sua ultima tournée, disse con la sua tipica umiltà vestita di ironia, che solitamente usava per mascherare l’imbarazzo:
”..Non vorrei mai finire in un museo o in una piazza, come una statua alla mercé dei piccioni...”.
P.S.: Tutti i corsivi sono fedeli trascrizioni dal concerto…
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