I musicisti pop/rock si potrebbero dividere in due grandi categorie: da un lato, coloro che esplorano, nel corso della propria carriera, un solo genere musicale, ripetendo se stessi con timide variazioni, dettate più dalle mode e dall’evolversi delle tecnologie di registrazione o strumentazione che da un’intima convinzione o da un preciso disegno, e tornando il più delle volte sui loro passi con la restaurazione del loro stile originario: si pensi a molti cantautori italiani, perennemente fedeli al proprio stile, e più attenti al lato testuale che musicale della loro arte; dall’altro lato vi sono gli sperimentatori indefessi, talvolta velleitari e di nicchia, che tentano di mescolare più generi o diversi approcci musicali, svariate sonorità, enfatizzando il lato tecnico e cerebrale della musica, talvolta a discapito della diretta comunicatività: sempre per restare in Italia, è il caso di molti gruppi d’avanguardia, come le prog band degli anni ’70.

Capita talvolta che le due tendenze segnalate si incontrino, in una sintesi feconda ed irripetibile, da sola in grado di segnare un’epoca. E’ ciò che è avvenuto nel ’79 ad opera dei due live incisi da Fabrizio de Andrè, il massimo cantautore italiano e vero e proprio maestro della canzone d’autore, e la Premiata Forneria Marconi, la più dinamica formazione del rock progressivo italico. Pubblicati a distanza di qualche mese, i due live possono vanno considerati unitariamente, essendo tratti da due concerti di Firenze e Bologna. In essi, alcune delle più note canzoni di De Andrè vengono riarrangiate ed accompagnate dalla PFM, ottenendo una perfetta fusione fra il cantato, ora dolente ora caustico, del cantautore genovese, e le articolate trame musicali del gruppo, che arricchiscono i singoli brani colorandoli di nuovi toni, in una fusione fra tradizione cantautorale e musica progressiva mai registrata, né tentata, prima, in Italia e nel mondo.

Nel volume I spicca, in particolare, le esecuzioni di Bocca di rosa, Volta la carta, La guerra di Piero il Pescatore, il cui andamento è enfatizzato dalla sezione ritmica della PFM (Djivas e Di Cioccio), sempre più incalzante man mano che le storie narrate da De Andrè si sviluppano fino ai dissacranti, soprendenti o drammatici epiloghi. In altri pezzi vengono invece in evidenza i suoni mediterranei che tanto cari sarebbero stati al De Andrè degli anni ’80: in Andrea, spiccano le influenze latine della chitarra di Mussida e dei sintetizzatori di Premoli, Un giudice è sottolineata da una fisarmonica che quasi restituisce l’immagine del nano inquisitore ed occhiuto, mentre Zirighiltaggia è un etnic rock tiratissimo che non sfigurerebbe negli album dei Mano Negra (!). Una terza serie di brani punta soprattutto sull’emotività dei testi e delle musiche: Giugno ’73, dal testo drammatico e toccante (uno dei più riusciti di De Andrè) trova nelle pacate sonorità della PFM un eccellente accompagnamento, che fa quasi implodere il brano in una continua tensione; la canzone di Marinella appare essenziale, sorretta dalla toccante melodia di piano e chitarre, mentre Amico Fragile è il pezzo che maggiormente risente dell’impostazione prog rock della PFM, dilatata e sinfonica, con uno splendidi interventi di Mussida che aumentano il pathos della confessione in musica di De Andrè.

Gi stessi schemi si hanno nel volume II, che si apre con la dylaniana Avventura a Durango, dalle ricche sonorità folk rock, per seguire con Sally, il cui tema principale risente di echi quasi morriconiani. Il piano ed i synth di Premoli sorreggono ed enfatizzano i toni di Verranno a chiederti del nostro amore, mentre Rimini, con suoi accenni corali e le sue aperture melodiche è una perfetta sintesi di tensioni progressive e cantautorato melodico. In Via del Campo emergono i contrappunti dei sintetizzatori, ad intarsio della splendida voce di De Andrè. Curiosa l’introduzione di Maria nella bottega del falegname, in cui si riproducono i suoni di una bottega artigianale: rispetto ai precedenti, il pezzo è contrassegnato da un arrangiamento elettrico e deciso, con batteria e cori in grossa evidenza, mentre il sintetizzatore traccia un tema difficilmente dimenticabile. La conclusiva Il Testamento di Tito si distingue per il lavoro del basso di Djivas, e per il crescente intervento della PFM, che arrotonda riveste la canzone.

Oltre che per l’indubbio valore dell’opera, i due album meritano l’acquisto perché segnano un po’ l’epitaffio sonoro di un’intera stagione della musica italiana e le basi per sviluppi più fecondi, anche se non sempre noti al grande pubblico o ai consumatori medi: veniva dato l’addio al cantautorato classico di scuola genovese ed al prog rock del decennio che si andava chiudendo, mentre il futuro avrebbe portato a De Andrè una più decisa svolta etnica (Creuza de Ma – ’84) ed alla PFM alterne fortune nella ridefinizione del loro rock d’autore (Suonare suonare – ’80; Come Ti Va in Riva alla Città – ’81).

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