Basterebbe parafrasare, ricordandolo ai commercianti della categoria, l'ultima lirica presente nella prima canzone: "Tu che lo vendi, cosa ti compri, di migliore...". Senza dubbio la più maestosa opera di quel Fabrizio De Andrè che ha voluto per forza abbandonarci prima del tempo. Quante notti abbiamo patito la sua assenza irrevocabilmente dolorosa, in quanti abbiamo sofferto per la sua irreparabile mancanza. Senza alcuna punta di cinismo, e soprattutto senza alcuna cattiveria (lungi da me), spero in molti perché un'assenza così non può passare inosservata. De Andrè è stato, prima, uno dei più grandi letterati del Novecento e poi uno dei più grandi cantautori, senza alcuna ombra di dubbio.
"Non al denaro, non all'amore né al cielo" ne è una sacra testimonianza. Mi chiedo, da comune mortale, come sempre, come si possa far conciliare la poesia più raffinata con un tipo di musica costruito perfettamente sull'armonia delle parole scandite. Credo che non si possa neanche imitare un genio come Fabrizio De Andrè, non solo per la vena poetica seconda solo a pochi affermati letterati, ma anche per la bassa ma pratica voce nasale, per le arcate gutturali di alcuni brani, per la sapienza utilizzata nell'inanellare metafore, per la quindicina di milioni di sigarette incrostatesi nei polmoni, per le strofe meravigliosamente rimate, per la profondità sanguigna plasmata sui temi intensi, per la semplicità sottile di temi meno impegnativi, e ancora altro...
L'opera de quo è liberamente tratta dall'antologia di Edgar Lee Masters, basata su personaggi comuni al tatto ma intensamente introspettivi mediante un'analisi più accurata. Dell'ignoto che canta le gesta funebri di personaggi visibili quotidianamente, passando per la storia da sempre funestata da ignobili quanto inutili guerre. Del matto del villaggio conosciuto e simpaticamente sbeffeggiato dal resto del paese, sicuramente più felice di vivere nel suo mondo variopinto che nel bieco mondo materiale che lo strapperà alla vita inderogabilmente. Del violento insegnamento, per chi non lo sapesse, che bisogna sempre temere in qualche modo colui che ci sta di fronte, soprattutto se si tratta di un nano che apparentemente può suscitare interesse sul demotico luogo comune delle possibili soddisfacenti dimensioni dell'organo riproduttivo. Guai seri se dovesse sfoggiare una considerevole toga guadagnata con il ritmo incalzante dell'odio verso il carnefice. Alla sua morte ci sarà di superiore la giustizia divina. Dell'eretico che nega l'esistenza di Dio e lo racconta ad alta voce finendo per essere trucidato da potenziali falsificatori dell'immagine divina, demoni inconsapevoli della violenza scaturita da ogni tipo di estremismo, anche di matrice religiosa. Del povero menomato che patisce la sua compromettente situazione anche nel solo semplicissimo gesto di dissetarsi. Riscatterà con la morte il culmine delle sue ambizioni, l'amore.
Del laureato in medicina che, se gli venisse conferito il potere guarirebbe chiunque, costretto invece a sopportare il violento cinismo derivante dal circolo vizioso della realtà professionale e burocratica. Del chimico, abituato a studiare la reazione degli elementi a sua disposizione ma disturbato da quel rovello chiamato amore che lo porterà ad una incosciente autodistruzione. Del vecchio suonatore che imbevuto di alcool etilico distillato, ricorda ciò che la vita generosamente gli ha donato e che violentemente gli ha tolto, accontentandosi di un'oncia di ubriachezza che ritiene più importante di ogni bene terrestre.
Avrei saltato "Un ottico", e l'ho fatto perché merita un discorso a parte. E' il capolavoro assoluto di Fabrizio De Andrè. A partire dalla fisarmonica colorata da bozzetti di aria da orchestrina da salone che cammina convinta fino ad una pausa effimera che lascia spazio ad uno dei più grandi intermezzi musicali mai scritti. Il delirio dei clienti di questo accondiscendente bottegaio, connotato dall'accavallarsi irregolare di voci, reso imponente da un ferroso assolo di chitarra elettrica di eccellente fattura. Miraggi psichedelici, elettronici, caotici, brillantemente esplosivi, si susseguono a colpi netti da richieste di manufatti sempre più improbabili ma di convinta matrice. Fino a sfociare nella deliziosa orchestrina, dal timbro più convinto, che chiude il brano accontentando tutti gli avventori.
Mi azzarderei a dire, senza dover subire troppi dardi di Paridiana memoria, che si tratta del più grande album di musica leggera italiana. Opera di quel Fabrizio De Andrè, genio comprensibile per molti ma non per tutti, da ringraziare per i suoi lavori e mi sento di dire, da non perdonare per l'essersene andato troppo presto.
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