Se Fabrizio De Andrè è passato alla storia è per "La canzone di Marinella", "La guerra di Piero", "Bocca di Rosa" o "Don Raffaè", magari "Il testamento di Tito" o ancora "Via del campo", mettiamoci anche "Hotel Supramonte" e "Creuza de ma", e perchè no "La canzone dell'amore perduto". Quali di questi pezzi si trovano scorrendo la tracklist di "Rimini"? Neanche uno. Una sfilza di nomi anonimi popolano il dorso di questo disco, forse il solo nome di "Andrea" riesce ad evocare qualche melodia conosciuta che però evapora ben presto (in una nuvola rossa).

"Rimini", primo dei due lavori scritti da Faber assieme a Massimo Bubola, non è un disco costruito per rimanere nella storia, niente di grande, ma qualcosa di splendidamente triste. Cosa che, con un nome del genere, mai ti aspetteresti. "Rimini" è denso di quella malinconia di fondo che ti abbraccia, il pezzo omonimo che apre l'album inaugura un teatrino di volti tristi e disillusi che da qui alla fine del disco si cederanno velocemente le parti, la sua melodia lenta e ricca di salsedine evoca il lato nascosto della provincia romagnola, dove lo sguardo arriva se riesce ad ignorare gli ombrelloni. Così come l'amore omosessuale di "Andrea", ennesimo torto della guerra verso il quieto vivere, porta il protagonista della canzone, Andrea appunto, a gettarsi nel pozzo "più fondo del fondo degli occhi della notte del pianto". In mezzo la vivace "Volta la carta" è un bombardamento continuo di immagini che ruotano tutte intorno ad un unica figura, questa Angiolina che pare trarre gioia dalle piccole cose fatte in solitudine, mentre la seria "Coda di lupo" è uno sguardo deandreiano misto di figure retoriche sull'attualità di allora (poi fatemi sapere che incredibile forza ha l'espressione "arco di Traiano", è proprio vero che certe parole vengono scelte in base al loro effetto sonoro).

"Sally", pezzo più pregiato del disco, è un'altra malinconica narrazione sulla fine dell'infanzia, l'uscita dai sogni per dare spazio alla disillusione; lei, Sally, rappresenta la purezza che viene persa via via crescendo, passando da paesaggi da fiaba con tamburelli e pesciolini d'oro a realtà d'eroina e coltelli in mezzo ai seni fino ad esaurire le proprie speranze nei bassifondi presso il re dei topi, il tutto accompagnato da una musica che riscalda. C'è spazio inoltre anche per un riadattamento della dylaniana "Romance in Durango" ("Avventura a Durango", appunto, per la quale lo stesso Dylan si complimentò), una divertente canzoncina cantata in sardo ("Zirichiltaggia", a conferma della vicinanza di De Andrè con la realtà popolare) e una complessa visione quasi onirica nelle melodie e nel testo, in "Parlando del naufragio della London Valour" infatti si intrecciano persone, atti, pensieri e gesti tutti buttati lì assieme senza troppa logica, come in un sogno appunto, o in un film di David Lynch. Solo una chitarra elettrica ogni tanto mette un po' di ordine.

Chiude "Folaghe", a dare un tocco salato e ulteriormente nostalgico a questo lavoro, "Folaghe" che è anche l'unico pezzo strumentale della carriere di Faber assieme a "Tema di Rimini", sempre su questo disco, che però di può considerare una coda di "Andrea". Non è da cercare qui il De Andrè più famorso, quello delle filastrocche o delle lente canzoni d'amore, è semmai un De Andrè da riscoprire e da apprezzare in solitudine, fuori dalla massa, fuori dal groviglio di strade, fuori dalle voci della gente; solo voi, il disco, e magari il mare d'autunno.

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