Spesso accade che parlando di musica tra amici, si arrivi a dei discorsi in cui si cerca di capire quale sia il massimo (facendo finta che esso non sia matematicamente non misurabile) per un determinato genere o artista, ponendosi delle domande intellettualmente inutili come "quale cantante è più capace" o "qual'è l'artista più violento della storia della musica". Quando tra queste domande salta fuori "qual'è l'album più depressivo e depresso di tutti i tempi", mentre alcuni rispondono tirando fuori Thergothon, Sopor Aeternus o Joy Division (tutti artisti e band che considero anch'io di gradissimo valore da quel punto di vista, e anche di grandi capacità artistiche), io rispondo inevitabilmente con questo "Tutti Morimmo A Stento".
Il motivo è che questo album, sia nelle stupende poesie recitate dalla voce baritonale del De Andrè, sia negli arrangiamenti ridondanti e barocchi, è quanto di più oscuro e disperato sia mai stato registrato sino a ora. Ma venimo con ordine.
Siamo nel 1968. La contestazione giovanile, come saprete meglio di me, stà esplodendo; l'età dell'Acquario volge al termine e la musica moderna è in uno dei suoi periodi più fertili: la rivoluzione dell'hard rock è alle porte e la psichedelia pure, ma in mezzo a questo clima tesissimo, fatto di hippie e di Vietnam, qualcuno scieglie di esprimere le proprie emozioni e la propria sensibilità nella musica diversa, ma non per questo meno rivoluzionaria: decide cioè di condensare tutto il pessimismo, di cui in quel momento traboccava, in una musica che era equamente figlia dei chansonnier francesi, dei songwriter d'oltreoceano e delle cantate medioevali. Scrive quindi i pezzi, che era già abituato a comporre poichè aveva già fatto esperienza con delle ballate abbastanza facili (che lui in seguito definirà "peccati di gioventù"), registra, con l'usilio dell'Orchestra Philarmonia di Roma, e lo stesso anno esce nei negozi questo capolavoro. De Andrè è solo un 28 enne.
L'album si compone di nove pezzi, cinque nel lato "A" e quattro nel lato "B", per una durata complessiva di 33 minuti scarsi. E' da notare che i primi 5 brani sono strutturati come se fosse un unica, stupenda suite da 18 minuti.
L'apertura del capolavoro è data dalla struggente "Cantico Dei Drogati". E' un brano barocco, in cui, grazie ad una sapiente orchestrazione, la canzone d'autore si sublima a vertici degni della musica classica. Si tratta di uno dei brani più toccanti dell'intera produzione dell'autore. Per quanto riguarda l'aspetto musicale, i violini piangono dolcemente, in primo piano, sinchè non arriva la voce, con in sottofondo l'immancabile chitarra acustica, a dominare la scena con una potenza evocativa degna dei migliori Cohen e Dylan. Le lyrics sono una forma rielaborata della poesia "Eroina" del poeta anarchico non vedente (e futuro suicida) Riccado Mannerini (1927-1980). Il testo è molto fedele all'originale, anche perchè la forma rielaborata è stata riadattata in rime baciate con la collaborazione di Mannerini stesso. La tematica è la morte interiore dei tossicodipendenti all'ultimo stadio, anime tristi che i trascinano "verso un fuoco che non li scalda", come dice la versione originale del testo.
Terminati i sei minuti del brano, con un crescendo di cori e melodie d'archi, che aumentano progressivamente in quanto irruenza, ritorna un arpeggio acustico, che fà da ponte tra il brano precedente ed il "Primo Intermezzo", una cupissima cavalcata di archi e percussioni che serve più che altro come preludio atmosferico al brano che segue, uno dei più toccanti della produzione dell'artista genovese. "Leggenda Di Natale" si apre dunque con una semplice chitarra acustica, sognante come solo Nick Drake ha saputo fare più avanti, e contemporneamente calda nel suo incedere intimistico, complementare al nevoso freddo ispirato dai cori che forse, grazie al loro uso (che ricorda molto quello dei Bathory su "One Rode To Asa Bay" e quello dei Symphony X nella primissima parte di "Divine Wings Of Tragedy") sono i veri, magici protagonisti di questo brano, dopo la voce. Le tematiche trattate sono quelle della violenza più terribile, la pedofilia. Il brano è infatti ispirato a "Le Père Noël e La Petite Fille", brano del grande maestro Geoges Brassens, che tratta appunto di una bambina, stereotipo dell'innocenza più pura, traviata da un "Babbo Natale" dalle intenzioni tutt'altro che rassicuranti. Il brano si chiude com'era cominciato, cioè con l'arpeggio dominante dello stesso, arpeggio che subito cede il passo al riff di secondo intermezzo, brano quasi del tutto simile al primo omonimo, tranne che per le lyrics leggermente differenti.
E dopo questo breve passaggio, che possiamo considerare come un sentiero segreto e dimenticato che conduce ad una catacomba, la catacomba stessa: "Ballata Degli Impiccati". Musicalmente siamo di fronte ad una dolente ballata country, dai toni noir e angosciosi; qui il quasi totale peso dell'accompagnamento è affidato ad un acustica dal suono polveroso, intervallata da un violino malinconico che sospira agonizzante, accentuando l'aspetto visuale del brano, che a mio parere sarebbe perfetto come colonna sonora… le partiture per archi di questo brano potrebbero ricordare le sporadiche apparizioni del violino negli intermezzi acustici di "Solitude" dei Candlemass, ma dubito fortemente che il gruppo svedese conosca l'autore, sicuramente non all'epoca di "Epic Doomicus Metallicus". Le lyrics del brano, forse mai così ruvide nella produzione di de andrè, sono assolutamente gonfie di rancore, come una ferita infetta gonfia di siero che non si vuole rimarginare: non c'è perdono, neppure oltre la morte, per i carnefici; nessuna redenzione per i condannati. E un universo tanto terribile quanto reale. Con un "fade-out" si conclude quindi la prima facciata del vinile; la seconda non sarà all'altezza, ma manterrà picchi compositivi di altezza non indifferente.
Il Lato B si apre quindi con "Inverno", una malinconica traccia musicalmente molto influenzata dal jazz, soprattutto per quanto riguarda l'uso degli ottoni, molto marcati. A livello lirico i tratta di una semplice ma sublime poesia stagionale, che ha il compito di evocare la terribile magia dell'inverno e della morte della natura. Con un ultimo grido degli ottoni sfuma quindi anche quest'ultima, per lasciare spazio a "Girotondo". Si tratta di una traccia dai toni allegri… questo apparentemente, perchè ad un analisi più attenta scopriremo che i bambini dei cori non sono allegri, ma "ebbri di sangue e di morte"; non euforici a causa del gioco, ma eccitati dalla smania di guerra e di conquista ("La terrà è tutta nostra… giocheremo a far la guerra"); a dar riprova di questo ci pensa il finale, che si trasforma in una (brevissima) orgia cacofonica causata dalle filastrocche dei bambini impazziti. Tuttavia, nonostante il suo significato morale e concettuale si applichino alla perfezione al disco, "Girotondo" è una traccia che stona pesantemente a livello musicale, un vero pugno nell'occhio comparato alle atmosfere sommesse del resto del disco; costituisce infatti l'unico cedimento del disco (l'altro possibile sarebbe il finale "Recitativo/Corale", per motivi che approfondiremo dopo).
Dopo il crescendo finale della traccia appena passata si apre il terzo intermezzo; si differenzia grandemente dai due precedenti sia in quanto contenuto lirico che musicale. mentre i due precedenti erano delle sarabande orchestrali molto ritmate, questo terzo è una specie di desolato minuetto acustico dal sapore medioevale, suonato come se fosse stato composto da uno scheletro vestito di stracci per le strade di un villaggio decimato dalla peste. Lo sfumare del brano, ancora una volta segna l'inizio della traccia successiva, in questo caso, quella finale: "Recitativo/Corale (Due invocazioni e un atto d'accusa/Leggenda del Re Infelice)" è forse la traccia più carica di pathos, non un pathos raggelante come quello delle tracce passate, ma qualcosa di spiritualmente epico, che potrebbe avere a che fare con il nick Cave di "The Good Son": De Andrè si fà portavoce delle sua tanto amate minoranze, e ancora di più, delle anime che si sono perse lungo la via, che strisciano in un sentiero di morte e desolazione o che "navigavano su fragili vascelli per affrontar del mondo la burrasca". Anche in questo caso, come nella ballata degli impiccati, le sue parole non sono solo di perdono, ma anche di sdegno che attende vendetta: "sappiate che la morte vi sorveglia". Anche qui, nonostante le musiche siano di grande impatto, con una forza emotiva che dà una sensazione di sacralità innata, dal punto di vista compoitivo c'è una piccola pecca (un pelo nell'uovo, più che altro): stò parlando dei cori delle voci bianche, croce e delizia di tutti i musicisi ambiziosi, dal qui presente De Andrè a Roger Waters, musicisti che spesso si lasciano andare troppo in là, per approdare dal barocco al sovrabbondante; sono infatti davvero troppo mielose le vocine dei bambini, che danno un senso più che di purezza, di pacchianeria. Ma fà nulla, d'altronde ogni (e sottolineo "ogni") album e ogni cosa ha un piccolo particolare fuori posto, e probabilmente è giusto che sia così.
Per concludere, voglio dire che siamo difronte ad uno dei massimi capolavori della musica moderna del nostro tempo: è un disco che merita davvero, sotto tutti i punti di vista, e almeno un ascolto da amici è d'obbligo.
Ci risentiamo alla prossima con gli altri pilastri della musica depressiva.
Voto: 10
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