Ero a Groningen, una città sperduta ma non troppo tra fiumi di pesce fritto e barche abitabili nel nord dell’Olanda. Tra le altre cose ci stanno anche parecchi negozi di dischi, così entriamo in quello che sembra meglio fornito – e il socio che studia lì ci conferma che è così. Per Dio, sarà tipo una vita che non compro un disco, anche perché non ho davvero lo sbatti di reperire copie fisiche di cose che mi interessano davvero: così mi stupisco di me stesso e dell’inaspettato percepire, appena varcata la soglia di questo PLATO Music, un desiderio insano di portarmi a casa una copia di Songs For Our Mothers dei Fat White Family. Titolo singolare, un po' come se Giò di Tonno intitolasse un concept album biografico a Charles Manson. Se come me a quel punto l’aveste ascoltato già più volte, avreste saputo che è il secondo disco di questa band di drogati nata in qualche non meglio definito squat di Londra ad opera di due fratelli nordirlandesi con parentele mediorientali, in un team up degenerato con un palese eroinomane. Non ho ancora capito se sia il bassista o il chitarrista. Mi sa che è il chitarrista. Per intenderci, è il tizio più scavato di tutti nel video del singolone.
Dopo il singolone, che è la prima traccia - discretamente ballabile e portatrice di scintille geniali tra trombette catartiche, anthem sessualmente deviati e charlie demoniaco – le altre fanno scivolare lentamente nell’inferno vagamente languido e deturpato, degradato di questi ragazzi nuovi eredi della psichedelia: formalmente, e anzi quasi più in termini spirituali, sono pronto a considerarli i veri ultimi figli degli Spacemen 3, e qui datemi pure le mazzate. "Who's the weakest ring in the chain now?" Il disco è stato da loro stessi definito “ an invitation, sent by misery, to dance to the beat of human hatred”. I cazzari in questione hanno vissuto per un bel po’ nel degenero sopra a un pub, e non è l’unica analogia che si può fare con i Birthday Party. Il marasma smegmatico di suggestioni a cui si rifanno cola umori e liquidi corporei, risuona di oblunghi pezzi di carne animale sbattuti pelle su pelle, nudità e varie forme di violenza subliminale. In questo secondo disco, meglio prodotto del garage (comunque fichissimo) dell’esordio, c’è di tutto: da Goebbels alle (ovvie) droghe amorose a Tina Turner alla dissacrazione di Primo Levi. Qualche stronzo potrebbe dire di vederci un immaginario coeso, o potrebbe spingersi a cercare di determinare e delineare il progetto intellettuale (?????) di Lias e soci dietro al baraccone ambulante decadente(defecante)e provocatorio delle loro fanfare mistico-diaboliche, ma tant’è, a me basta la musica ed immergermi un po’ nell’acido. Non c’è bisogno dei Fat White Family per risvegliare i freak della storia e quelli che ci sono in voi, infatti per quello una giornata di lavoro o di università sono più che sufficienti: la musica è fatta per la sospensione del giudizio e per il fascino del baratro, e la cosa migliore è che forse loro stessi non saprebbero decidersi se ammettere di farne un’arte o solamente un’occasione per tirare fuori il pisello live. Si dice che Lias lo faccia spesso, l'ha fatto anche all'ultimo Ypsigrock di Castelbuono Sicilia beccandosi la denuncia. Ma non è per questo che voglio vederli, è perché se me li perdessi ancora una volta proverei di nuovo la sensazione di aver perso qualcosa come l’unico gruppo rock vivente.
Non avrei mai pensato di usare ancora la parola rock così e di lasciarla scritta pur provandone ribrezzo immane, ma alla fine quando compro il disco di un gruppo, mi sembra di star dando un po’ di soldi anche a tutti quelli a cui non l’ho mai comprato. I più bianchi sulla spiaggia. Questa rece fa schifo ma in fondo deve essere così.
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