Se il kraut-rock è stato un movimento assai eterogeneo e difficile da circoscrivere (se non per il ben determinato background socio-culturale, che è quello della Germania dei primi anni '70), si può altrettanto dire che i Faust da Wümme riuscirono nell'arco di appena tre anni ad abbracciare gli antipodi del genere con una maestria che ancora oggi lascia basiti.
Dopo aver esordito in lp con l'omonimo "Faust" del 1971 (iconica la manona passata ai raggi-x che campeggia sulla copertina del vinile), la band diede alla luce "So Far" e quindi "Faust IV" nel giro di due anni successivi. Mentre l'esordio consisteva di tre lunghe suite all'insegna di un rumorismo assoluto e convulso e arrivava financo a citare, maltrattandole, due hit della stazza di "(I Can't Get No) Satisfaction" e "All You Need Is Love", la seconda prova sulla lunga distanza si manifestava come un lavoro di transizione, che sposava le tendenze più estreme che avevano avuto voce nell'omonimo a un approccio melodico da poppettari provetti (udire per credere la più fortunata del lotto, 'It's A Raining Day, Sunshine Girl').
Un progetto sperimentale alla deriva, in piena crisi d'identità? Tutt'altro, siore e siori. Quello che i Faust riuscirono a sfornare con la loro terza fatica in long-playing è un disco che rimetteresti da capo ogni volta che è finito, per scorgere ad ogni ascolto nuove sfumature. Faust IV è un macigno della corrente kraut tutta, un trentaseienne che sembra ancora un neonato, una delle gioie assolute per i miei orecchi.
Tanto sfrontati da intitolare giustappunto "Krautrock" la monumentale suite d'apertura del disco (e chi l'avrebbe mai detto che questi mangiapatate conoscono l'autoironia?), i Faust danno subito un saggio della loro onnipotenza in campo di destrutturazione. Dodici minuti su uno shuttle che ha il passo di un treno a vapore, cadenzato e altamente disturbato; una marcetta apparentemente innocua che la band si diverte a inquinare con ogni sorta di aggeggio a sua disposizione. Tamburelli, fischi, fruscii, fracassi, distorsioni spaziali che ricordano tanto i capolavori dei contemporanei Hawkwind. Tun-Tun-Tun-Tun, il motivetto monotono che fa da scheletro non abbandona l'ascoltatore fin nei minuti finali, quando gli strumenti iniziano ad apparire sempre più distanti, indipendenti fra loro. Pian piano la miscela si fa più eterea, il treno a vapore sembra aver preso un LSD; poi si dissolve nel niente, lasciando un tumulto sinistro nelle tube uditive dell'avventore.
Punto e a capo. Non fai in tempo a chiederti cos'era sta roba che il silenzio viene assalito da un grido da pagliaccio straziato, seguito da una sonora soffiata di naso (!). Il reggae a suon di maracas e xilofono (e i Violent Femmes di "Gone Daddy Gone" ringraziano) che ne scaturisce è completamente straniante, lascia di sasso. Improvvisamente cominci a scuotere braccia, gambe e testa al ritmo irresistibile dei Caraibi, realizzando che la storia qui è cambiata di diritto in rovescio. Dopo averti lanciato in orbita i Faust ti riportano al suolo a ballare sulla testa dei porci nazisti. "Going places, smashing faces / What else could we do?" 'The Sad Skinhead' è una perla di musica pop farcita di suonini in pieno stile faustiano, impressionante per la sua preveggenza, un pezzo che probabilmente sarebbe a tutt'oggi una potenziale hit estiva, da veder ballare ai ragazzini.
Per la seconda volta finisce il pezzo e ti trovi a grattarti la testa, non ci stai capendo più niente e siamo ancora al principio. I battiti sordi e la melodia lontana che introducono "Jennifer" ti portano in un altro mondo ancora, ben più indecifrabile. Jennifer, chiunque essa sia, è una ragazza fortunata, perchè non è da tutti dare il nome a una litania così sognante e intrisa di un sapore europeo che la rende tanto familiare. Ma si sa, i Faust hanno una reputazione da mantenere e al minuto 4 iniziano a provare il motorino dandogli di pedalina. Quasi di punto in bianco siamo alle prese con dei vortici cosmici che muoiono su sè stessi, di cui Roy Montgomery e i Bardo Pond non si dimenticheranno. Fino a quando un colpo sul piatto non dà l'incipit a una tarantella per pianoforte à-la Residents che va a concludere la terza traccia di un disco che basterebbe già confezionato così per sorprenderti.
"Just A Second (Starts Like That!)" parte in quarta con una chitarra presa in prestito ai Black Sabbath che imperversa su un motorik stavolta inconfondibilmente di pura matrice kraut. Ma ancora una volta i camaleonti ingoiano tutto ciò che trovano per strada. Grilli, cicale, pure gli uccellini. C'è proprio tutto nel menù, siamo incappati in una sera d'estate dal sapore sintetico. E poi elicotteri, spari, mitra, sembra d'essere nel Vietnam. I Faust fanno della grande musica, perchè riescono a evocare immagini che sembrano riesumate dall'esperienza più intima, ma appartengono in realtà ad un mondo androide, che a tratti sembra confondersi col nostro, per poi contorcersi nel suo caos claustrofobico.
Una danza dell'era industriale costruita su un basso monotono e due voci ubriache che si incrociano ("Ease me baby feed me baby, naked lunch is fun / I'm so lazy, I'm so crazy in the rising sun") apre "Giggy Smile". I nostri si lanciano stavolta in un groove che smuove dalla sedia, si sofferma dopo appena un minuto su atmosfere ambient, per poi infine riprendere le fila del discorso più danzereccio che mai, costruito sempre sul basso pulito e monocromo di Jean-Hervè Peron. La traccia muta quindi in un assolo rimbalzato tra la chitarra e un sax malato; infine cambia passo in un batter di ciglia e apre a una danse elettronica in cui chitarra, basso e sintetizzatore si rincorrono, inciampando di tanto in tanto, coadiuvati da un magistrale 'Zappi' Diermaier che picchia sulla sua batteria ora più schizofrenica che mai.
Il motivetto da suoneria si trascina per qualche minuto e dopo varie sbandate si schianta contro un pino. Fine della corsa, fine di una seduta d'ipnosi. Ci sono due voci che si parlano al microfono adesso, siamo chiaramente in uno studio di registrazione. E chissà che diavolo si staranno dicendo in tedesco. "Läuft...Heisst das Es Läuft Oder Es Kommt Bald...Läuft". Poi uno dei due attacca una bucolica di chitarra acustica, prima che un synth dal sapore medievale cominci a prendere forma e trasporti il sempre più fortunato musicofilo in un paradiso stavolta terrestre, ma molto, molto antico. Un sinistro battere di mani, una filastrocca cantata in francese: è un momento di surrealismo totale ed è anche l'apice del sogno sempre più articolato che i Faust ci propinano. Riesci appena a fare l'abito a una melodia, che subito ti ritrovi in tavola un suono straniante che mischia tutte le carte. Stavolta è una girandola di legno a inserirsi nel contesto e ormai il giochino si è capito: si cambia musica. Neanche a dirlo, un-duè-trè la pastorale disturbata muore nel nulla e dal nulla stesso emerge ancora un synth, etereo, che dipinge orizzonti sconfinati. E' il lirismo dell'era delle macchine, ed è bellissimo.
"Läuft..." si conclude dopo 8 minuti, lasciandoti intriso di una strana dolcezza, per lasciare il testimone alla track conclusiva del disco, "It's A Bit Of Pain". Il genio dei Faust, che si manifesta in una varietà estrema di forme, evince qui dalla scelta di chiudere un percorso che ha sconquassato il malcapitato uditore con quello che è, a conti fatti, il pezzo più tradizionale e/o convenzionale dell'album, l'unico degno d'esser chiamato "canzone" senza vergogna. Si tratta di una ballata di campagna, lenta e sudata, per chitarra acustica e piano, che la band stavolta si limita a straziare un paio di volte, con un disturbo di frequenza prima e con una voce femminile in tono radiofonico dopo. Finchè un chitarra molto, molto distorta, non giunge a mettere la parola fine su 'Faust IV', prendendo per mano la melodia fino al termine del siparietto campestre conclusivo.
A questo punto, se il vostro supporto e similare alla mia autoradio (e spero di no, perchè questo capolavoro si merita ben altro), si riparte dalla traccia numero uno e qui si apre a voi una doppia chance: per l'ascoltatore stupefatto, come io lo fui a suo tempo, non premere alcun pulsante rappresenta la scelta più redditizia, perchè questa autentica opera d'arte contemporanea è in grado di catapultarti ogni volta in una trance nella quale è possibile scorgere le forme più disparate. Per l'ascoltatore affamato di Faust, e lo fui anch'esso, ma solo dopo una decina di ascolti consecutivi, c'è il secondo disco della splendida edizione uscita in cd per Virgin nel 2006. Oltre a proporre versioni alternative dei pezzi cult dell'album, questa chicca contiene la triade 'The Lurcher - Krautrock - Do So' registrata come BBC Sessions nel 1973 (e uscita sul relativo disco) e lo splendido interludio di 'Piano Place'.
"Faust IV" è un lavoro nel suo complesso molto intricato, un nodo che sembra non sciogliersi mai completamente, ma non per questo complicato o di difficile ascolto. E' capace di stupire per la sua lungimiranza, ma lo fa in un modo meno cerebrale e spocchioso di molti sperimentalismi a esso contemporanei, teutonici e non. Esso si mimetizza terribilmente nel gusto comune e non perde mai al contempo l'occasione per mostrarsene lontano anni luce. Rappresenta un blocco di partenza per intere generazioni di musicisti a venire e un traguardo assoluto per una kraut-band che oggi meriterebbe (almeno) il rispetto attribuito ai cugini Neu! e Can.
E' un cane che si morde la coda, una confessione a metà. Un disco carico di colori, e di poesia.
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