Faust’O lo ascoltavamo in totale clandestinità.

Una setta massonica che si passava le cassette sotto i banchi non tanto per non essere scoperti dall’insegnante, quanto per non dover spiegare a quelli che la musica era solo la discoteca alla domenica che poi esisteva qualcos’altro. Roba da sfigati, quali eravamo. O da leggermente più maturi della nostra età.

E poi quella voce che avanzava a scatti ci sembrava una cosa nuovissima, strana, importante, adulta, malata. Sapevamo un tubo noi di Bowie, Talking Heads, Devo, Ultravox… “Sono stato nella tua stanza a rompere specchi” l’abbiamo scoperto solo tre o quattro anni dopo che era un plagio da 'Breaking Glass' del Bowie berlinese. Ma, a dire il vero, che cosa vuoi che c’importasse. “Chi fosse la provincia e chi l’impero non è il punto: il punto era l’incendio” (Battisti/Panella, Hegel). Era quello che Faust’O accendeva nelle nostre giovani menti adolescenti. “Ogni fuoco che accendo mi spinge verso il cielo”. Senso di appartenenza. Poi, improvvisamente, alla Coop quando ancora c’erano le cassette nella rastrelliera stile autostrada, apparve quella, in alto a sinistra. Faust’O, "Love Story".

Il disco nuovo di Faust’O. Nessuno ne aveva parlato, nemmeno Ciao 2001. Faust’O nuovo. Scendo la scala mobile di corsa, volo alla cabina telefonica.

France’, è uscito Faust’O”.

“Nuovo?”

Love Story

Prendilo.

Venti minuti dopo, bicicletta permettendo, eravamo davanti al mio stereo. Cassetta scartata seguendo il cellophane con le ES stampate sopra. Sei canzoni. Titoli in inglese. “Sarà mica un altro Out now?” Out now era il disco che ci piaceva di meno, troppo difficile. Poi non si poteva citare sul diario. Le faccine da allegre si fanno perplesse.

Primo pezzo, 'Exhibition Of Love'. Batteria basso e voce, nient’altro. Basso ossessivo e lancinante, batteria dai giri regolari ma incasinati. Voce monocorde, quasi un mantra. Non una variazione, non un’apertura. Una lunga declamazione, un unico tema. Così il secondo pezzo, così il terzo. Ripetuto per sei volte, per sei pezzi. Tutti così.

E per quei sei pezzi, noi sul divano davanti allo stereo senza un battito di ciglia, rapiti da un’ossessivo mantra che non capivamo, che non ci piaceva per niente, ma che non riuscivamo né a commentare né a spegnere. Una volta finito, non l’ho più risentito. Perché è stato in quell’unico ascolto che è successo tutto.

Qualcosa che ha a che fare coi riti di passaggio.

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