Quanto è difficile vivere. Essere coscienti di se stessi, prendere consapevolezza della miseria della condizione umana. Siamo soltanto piccoli esseri meschini. Non siamo altro che individui angosciati, psicologicamente annientati dalla cruda e nuda realtà, che ogni giorno smachera le nostre certezze e ci induce a riflettere sul perchè della nostra condizione sociale. L'uomo è una creatura insignificante, persa in un infinito e rullante turbinio di sensazioni derivanti dall'anima e dalla sua mente contorta.
Arriva. La crisi.
Un'io narrante, distruttivamente mentale, mentalmente distrutto. Un uomo sofferente, abietto. Consapevolmente sofferente. "La sofferenza, questa è l'unica causa della consapevolezza". Un uomo malato, piccolo, rintanato nel più buio angolo della più buia stanza del mondo. Vergognoso di se stesso, inetto, autoingannatore.
Un monologo torbido sulla degradazione morale della società e dell'uomo in generale, timida creatura vivente poggiata sulle illusioni. La scienza non può migliorare l'umanità, la ragione non controlla completamente il nostro intelletto, ma è limitata. Noi agiamo al di là dei nostri intenti, travalichiamo le categorie di utilità per abbandonarci al superfluo, alla distruzione del concetto di buon senso. L'uomo nella sua totalità è malvagio, gode a veder soffrire, soffre a veder godere.
L'opera, delirante sussuguirsi di teorie astiose verso il mondo, è suddivisa in due parti. La prima è un dissacrante monologo interiore. Parole di malattia e rabbia, di odio e putrefazione verso la corruzione morale e le azioni degli uomini. Nella seconda parte Dostoevskij ci racconta le sconquassanti ripercussioni mentali di avvenimenti apparentemente di poco conto. Crisi di delirio, pianti, offese morali ad una donna, inutili tentativi di "essere qualcuno" attraverso l'azione.
Ma l'aspetto più strabiliante di quest'opera è la propensione all'indagazione dell'inconscio. Lo scrittore russo anticipa quello che Freud riprenderà successivamente e su cui baserà la sua psicoanalisi. L'inconscio si può "penetrare" e Dostoevskij lo fa con "spietatezza filosofica". La psiche prima del russo veniva identificata con la ragione, ma egli fu il primo a porre le basi per decifrare l'inconscio umano, attraverso la sistematica destrutturazione dell'anima.
Un'opera in cui si fonde l'inettitudine degli inizi del novecento e le "mal du vivre" del romanticismo.
L'uomo è malato, è preda della sua malattia.
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