Alcune opere sono più importanti per quello che hanno rappresentato, per il seguito che hanno creato, che per l'effettivo valore del loro contenuto. Per tali opere risulta spontaneo, quasi inevitabile, fare un'analisi a posteriori, tenendo cioè conto delle vicende seguenti alla loro pubblicazione: l'impatto suscitato, le evoluzioni artistiche dei loro autori, confronti con i lavori successivi e così via. In questa categoria si ritrova anche l'oggetto della recensione: concepito tra il 1990-91, "Concrete" sarebbe dovuto essere il debutto dei Fear Factory, ma a causa di una controversia tra il gruppo e il produttore di allora Ross Robinson vede la luce solo nel 2002. Pensadoci bene, dacché fu pubblicato quando i Nostri avevano già realizzato le loro cose migliori, ci si può anche permettere di recensirlo con il senno di poi.

Entrando nello specifico del contenzioso, i giovani Fear Factory non erano contenti del loro contratto ed erano allettati dalla Roadrunner, prestigiosa etichetta dedita al metal. La band vinse i diritti sulle canzoni, potendo re-inciderle a loro piacimento (sei nuove versioni vennero inserite nel primo full-length ufficiale, "Soul Of A New Machine" del 1992, e altre furono riprese nel corso della carriera), mentre dal canto suo Robinson vinse i diritti sull'album. Soltanto nel 2002, quando il gruppo era già sciolto (la reunion, con qualche cambio di formazione, ebbe luogo nel 2004), la Roadrunner rilevò le registrazioni al produttore, ormai affermato, e assemblò questo prodotto per adempiere ai termini del contratto, che prevedeva un altro album: inutile dire che fu un'operazione spudoratamente commerciale e le polemiche non mancarono.

La ferocia raffinatamente compattata dalla produzione e innervata di tecnologia; l'uso consapevole dell'elettronica e delle tastiere; la presenza di ritornelli non solo cantabili, ma anche memorabili, in alternativa alle strofe death; la serratissima e vertiginosa simbiosi ritmica tra chitarra e doppia cassa: sono questi gli elementi costitutivi di uno stile inconfondibile e influentissimo, esplicitato dal capolavoro "Demanufacture" (1995) e nel successivo e poco meno valido "Obsolete" (1998). In "Concrete" questi elementi sono ad uno stadio primordiale: i ritornelli melodici consistono in vocalizzi monotoni, lamentosi, a tratti stonati ed è chiaro che la voce di Burton C. Bell è acerba; del tutto assenti sono le infiltrazioni tecnologiche, in compenso batteria e chitarra interagiscono già, anche se l'affiatamento è da migliorare. Alla luce di ciò che è avvenuto negli anni seguenti, questi pionierismi, pur ingenui e un po' pretenziosi, non si possono che benedire. "Self Immolation", così bruta e lineare, si può considerare un'antenata di "Replica" e "Egdecrusher", nonché una finestra aperta sul futuro del metal estremo, che di lì a qualche anno sarebbe confluito nel nu metal. Ma se ci si concentra unicamente sul piano dell'ascolto e si prescinde da qualunque altro ambito, risulta chiaro che le canzoni più riuscite, in buona parte collocate nel finale, siano le più "tradizionali" e che la band si trovi più a suo agio quando suona "soltanto" un death metal tiratissimo e brutale, privo di interventi melodici, molto incline al blast beat e al grindcore (i trenta secondi di "Deception"  sono una vampata degna dei Napalm Death).

Benché sia per larga parte caratterizzato da ingenuità tipiche di un gruppo esordiente, "Concrete" è vario ed interessante, a dispetto degli intenti di mercato con cui venne in essere; forse non è del tutto esatto considerarlo un album ufficiale, come al contrario accade, ma è ben più sincero di tanti altri dischi non ufficiali (remix, raccolte, ecc.) sostanzialmente inutili che non aggiungono nulla alla carriera di questa grande band (semmai la inflazionano).

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