I must not fear.
Fear is the mind-killer.
Fear is the little-death that brings total obliteration.
I will face my fear.
I will permit it to pass over me and through me.
And when it has gone past I will turn the inner eye to see its path.
Where the fear has gone there will be nothing.
Only I will remain.
Se l'heavy metal è un genere che ascolto con piacere, questo lo devo a band come i Fear Factory. Piazzatisi nei primi anni '90 sui lidi meno ortodossi del genere, non hanno esitato a destabilizzare un genere che senza dubbio necessitava di un'evoluzione. Con loro i tre classici strumenti del rock diventano meccanismi volti a produrre le loro distintive ritmiche serrate, che assieme a campionamenti di elettronica-industrial ed un personalissimo ed espressivo cantato mostrarono un territorio ancora quasi del tutto inesplorato per gli stilemi del genere.
E' fondamentalmente thrash cibernetico sporcato di death metal, che assieme a cultura industriale, forte espressionismo, pessimismo e liriche distopiche danno vita ad una musica esemplare nella sua ferocia. I loro dischi sono meccanismi e le canzoni sono ingranaggi alimentati da temi fantascentifici, dove il concept sulla relazione uomo-macchina fa da padrone per le liriche. Proprio attorno a tutto questo emerge Demanufacture, un'opera immensa, che rappresenta secondo chi scrive uno dei punti massimi della musica metal. Irripetibile nella produzione, incredibile nella composizione, sconvolgente nell'esecuzione, terminale come pochi: ciò che si definisce capolavoro. Ma questa è un'altra storia.
Fear is the Mindkiller (1993) esce due anni prima del disco sopra citato. E' un EP, e rappresenta il primo di una serie di remix che i nostri proporranno negli anni, da intendere come una sorta di valvola di sfogo per la fissa dell'elettronica che i FF mai hanno troppo esasperato nel loro principali lavori. L'utilità in tutto ciò esiste, e personalmente la trovo nell'ammirare senza troppi compromessi un lato della loro affascinante bipolarità musicale. Oltre ad essere il solito assalto al sistema nervoso, questo mini-disco è sostanzialmente un taglia-e-cuci di qualche brano del precedente (ed infernale) Soul of a New Machine del 1992. E così direttamente dai Front Line Assembly, Rhys Fulber e Bill Leeb vengono invitati a smanettare sulla catena di montaggio dei Fear Factory. Le canzoni non sono sconvolte dal loro fulcro d'origine, vengono solo impacchettate tra i vari layers della propria struttura secondo un mood decisamente più electro-industrial. A tratti techno e martellante, a tratti contemplativo ed ambientale, il tutto rimane sempre fedele alla propria vena estrema da cui proviene. Con questo non viene inventato nulla, nè si estende il concetto accennato nel precedente disco, ma semplicemente si carica ulteriormente la bilancia da un lato: quello più disumano e meccanico.
Un disco che a molti può risultare (e risulta) trascurabile, su cui però non posso che mostrarmi di parte essendo entrato nel loro mondo con la versione di Scapegoat qui presente. Lo reputo quindi un più che degno episodio prima del gran botto (successivamente seguito in analogia dai remix di Remanufacture). I Fear Factory sono un imprescindibile tassello nella storia della musica, vi prego di non confonderli con quei ridicoli rottami (tanto per rimanere in tema) che oggi occupano questo importante nome.
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