Ad un primo ascolto sembra di poter dire che ci troviamo "semplicemente" davanti ad un album di statura epocale. Nel senso più alto della definizione: della densità dei significati che racchiude, del modo in cui ritrae l'epoca storica nel cui contesto è inevitabilmente inserito e ne prefigura il futuro, e sotto il profilo musicale, per le nuove frontiere che apre ad inusitati, quanto virtualmente inesauribili, contatti tra linguaggi e generi differenti, nonchè per l'importanza che dallo sviluppo di un genere musicale (il metal, trascendendo le infra-etichette e sotto-generi) fornisce l'impulso per l'evoluzione del rock tout-court.
Qualcosa di analogo a quello che si può dire per l'importanza di opere come il "Black Album" dei Metallica, (sistematizzazione in status di classicità del trash-metal), gli albums dei Jane's Addiction (influenti ad ampio raggio su moltissimi gruppi successivi), dei Sonic Youth, e soprattutto, parallelismo forse più appropriato, per la capacità di prefigurare il futuro in forma di intuizione che seppero dimostrare i Public Image Ltd. nel secondo, sbilenco e geniale "Metal Box".

Il contesto in cui vede la luce l'opera prima di questa band americana è quello di uno scenario musicale, caratterizzato dalla compresenza della scena di Seattle al suo massimo splendore, e dalla concomitante affermazione di "generi" e bands che prima del mutamento nel gusto del "grande pubblico" (Red Hot Chili Peppers e Nirvana primi in classifica erano oggettivamente imprevedibili nelle charts americane prima di certi mutamenti) tra cui certo "metal industriale", e in modo particolare l'album "Psalm 69" dei Ministry, monumentale anch'esso, che ben oltre i confini dell'opera "di culto" si è affermato come uno degli album più significativi (anche commercialmente) del 1992.
Passando all'esame dei contenuti musicali sembra di poter dare una prima definizione del suono di "Soul Of A New Machine" nel modo seguente: sembra di sentire una sorta di "Death che suonano come i Godflesh": quelli di "Pure", in modo particolare, con Justin Broadrick e Richard Hampson (ex Loop) alla chitarra, vale a dire quella corrente dell'EBM riletto dalla prospettiva di musicisti ex grind-core (Broadrick) ed ex space-rock (Hampson), in un progetto (anche se non del tutto esplicito) di superamento dei canoni settoriali del Death-Metal, Trash-Core, Grind-Core, Industrial, Electronic Body Music e altri linguaggi pertinenti sfere assai lontane, ma che di fatto caratterizza il profilo di alcuni dei migliori gruppi Earache (Scorn, Fudge Tunnel, Sleep, Pitch Shifter, etc).
I Fear Factory, che incidono per l'"avversaria" Roadrunner (Sepultura, Paradise Lost, etc) sembrano in tal senso portare a compimento un lavoro di perfetta sintesi e fusione di suoni, quali le asperità chitarristiche del Trash-Core, il drumming ipercinetico (e virtuosistico) del Grind-Metal, e (quel che più affascina) conferire a questi suoni l'impronta basilare di sonorità di matrice elettronica: i Fear Factory, in altri termini, riescono con questo capolavoro, a realizzare a partire dalla forma Death-Metal, quello che i Ministry con il citato album  hanno realizzato partendo da una matrice industriale ed elettronica. Il sincretismo perfetto dei suoni qui racchiusi è in un certo senso una delle più alte e ardite espressioni di quella che è stata chiamata la "perfetta armonia del cross-over".

Si ascoltino i brani che più danno l'idea di questa nuova grammatica interna: "Arise Above Oppression", ritmo techno-metal in versione death, con voci gutturali o distorte, a dare l'idea di una visione quasi "espressionistica" del rock o metal; vale a dire di musiche in cui la teatralizzazione della sofferenza, della vista dell'orrore del mondo contemporaneo (ma non solo), e del senso di shock esistenziale che provoca dia forma a distorti e deformati ritratti di persone, paesaggi interiori/esteriori ora focalizzati in dettagli più importanti del tutto, ora su grandi spazi aperti ("Suffer Age", "Lifeblind") dello scenario della Storia in cui un dettaglio sfuggente ("un fiore nella spazzatura") può avere il significato di una salvifica speranza, o ancor più, di gettare una luce poetica su uno scenario martoriato e di indicibile sofferenza. Ma è nella sequenza "Natividad" (dedica alla madre di origini latino-americane del frontman ) e "Big God/Raped Souls" che i Fear Factory raggiungono, forse il vertice dell'intero disco: un assordante frastuono nella prima che fa da intro per la seconda, una invocazione con voce ultra-distorta che urla "so I am viciously raped, so I am in burning violence... in America: this is America, this is America , and I love America..." ripetuto in modo ossessivo e parossistico, sembra realmente (anche se forse in modo non-voluto) ricollegarsi ala poetica espressionista. Ciò che segue è da Enciclopedia del Rock di ogni epoca: percussioni sospese seguite dalla loro stessa eco, ripetute due-tre volte, esplosione di chitarre in un riff memorabile rispetto ai canoni musicali del death metal (Sepultura-Death-Entombed: la triade dei massimi esponenti del genere), il tradizionale "cantato" gutturale, che tuttavia (fatto unico in assoluto) si alterna a voci eteree, quasi femminili. Un'idea (mi sento di dire) geniale, che fa suonare quello che si pensava un album già perfetto per il suo genere come qualcosa che, incredibilmente va molto, molto oltre: la messa in scena del "crash ballardiano" uomo-macchina, è in realtà il pretesto per introdurre l'idea portante dell'album, cioè l'incontro con un mondo sempre più meccanizzato, la disumanizzazione e il conseguente senso di alienante straniamento, trovano in queste musiche "ossessive, che cercano ossessivamente di liberarsi dalla realtà che narrano" uno dei sedimenti più profondi del significato dell'età contemporanea.

L'unica risposta sembra quanto suggerisce il titolo dell'album (meglio chiamarlo "opera" in quanto si tratta di un autentico concept del macro-cosmo sociale zoomato sul micro-cosmo della realtà interiore): la ricerca della spiritualità (soul) all'interno di questa enorme, imponente e alienante "macchina". Purtroppo si tratta di un titolo che sembra anche alludere alla triste consapevolezza dell'irrealizzabile utopia che racchiude, ma il significato della "Risurrezione Degli Oppressi" con chiaro sottotraccia mistico-religioso, è proprio, a mio (limitatissimo) parere, quello della speranza anche dentro, e oltre la disperazione. 

Carico i commenti...  con calma