C'è il Fellini surreale, barocco e lisergico e poi... poi c'è il Fellini che intrappola nella celluloide delle realtà disperate imprimendovi al tempo stesso quella poesia di cui sono capaci solo i grandi, una poesia che non ha bisogno di affettazione per rapire il pubblico e portarlo in una dimensione altra.

Quello de "Le notti di Cabiria" è il secondo senza dubbio alcuno: qui il regista (e sceneggiatore, insieme al solito collaboratore Ennio Flaiano, a Tullio Pinelli e a nientepopodimeno che Pier Paolo Pasolini) non ha bisogno di svolazzi stilistici e continue incursioni oniriche per tener desta l'attenzione dello spettatore.

Basta l'inerme Cabiria (che altri non poteva essere che la mai troppo lodata Giulietta Masina, attrice feticcio e compagna di vita di Fellini), con la sua spontaneità disarmante, con quegli occhi lucidi e grandi che parlano da soli anche quando lei non proferisce parola, a prenderci per mano e a condurci in un mondo che riesce a essere fiabesco anche nella sua dolorosa realtà.

Cabiria, a dispetto di quanto le mie precedenti righe possano far credere, è "una che fa la vita", sì, una prostituta che lavora alla "Passeggiata archeologica" assieme ad altre donne (e amiche) con cui ha un rapporto terribilmente conflittuale.

Perché lei, nonostante le afflizioni e le sofferenze che è costretta a portare sul groppone ogni giorno, non è pronta ad accettare a capo chino la sua condizione, non è disillusa come le sue colleghe. Dietro una scorza solo apparentemente coriacea (formatasi per via delle varie delusioni ricevute nel corso della sua esistenza) si nascondono anzi un animo gentile, la volontà di riscatto e il desiderio di cambiare.

Cabiria è simbolo di un'Italia (nella pellicola vediamo la Roma del dopoguerra, in varie parti ancora da ricostruire) che, nonostante tutto, si rialza dopo le devastazioni della guerra; ma in senso lato si potrebbe anche dire che Cabiria è la Vita, che riemerge più volitiva e ottimista di prima nonostante i reiterati tentativi di calpestarla. E' una creatura che, come la ginestra di leopardiana memoria, sboccia intorno alla desolazione, in un mondo che crede di comprenderla ma non solo non vi riesce, non la merita neppure.

Il film è frutto dell'assemblaggio di una serie di episodi quasi l'uno indipendente dall'altro (l'incontro con l'attore famoso, un burbero Amedeo Nazzari; l'episodio dell'uomo che fa beneficenza ai poveri; la scena al teatrino e ciò che ne consegue) in cui il fil rouge è costituito da questa sprovveduta donnicciola.

La povera prostituta (anche se è la Masina stessa, con le sue movenze e la sua impagabile espressività, a suggerirci che la sua Cabiria è una prostituta atipica e che tale definizione le sta stretta) viene usata da tutti gli uomini in cui s'imbatte ma... nonostante tutto non può fare a meno di continuare a credere nell'amore. O più in generale in una sorta di ricompensa dovutale dalla giustizia divina dopo tutto quello che ha dovuto e continua a patire.

Si sente preponderante, in tal senso, la mano di Pasolini in sede di sceneggiatura e nella scrittura dei dialoghi: impossibile non notare una certa comunanza di tematiche, ambientazioni e risvolti narrativi fra quest'opera e quelle del Pasolini degli esordi, soprattutto "Mamma Roma". Sia Cabiria che Mamma Roma fanno il mestiere più vecchio del mondo, sono state sotto il giogo degli uomini per gran parte della loro vita, si illudono di potersi lasciare un passato torbido alle spalle ma entrambe... sono destinate allo scacco.

Ed entrambe, proprio quando credono di essere finalmente a un passo dalla felicità, vengono brutalmente sbeffeggiate dalla sorte. Vi è tuttavia una differenza sostanziale tra le due opere : laddove il film pasoliniano precipita, nella sua conclusione, nel più cupo pessimismo, "Le notti di Cabiria" fa ancora intravedere un barlume di speranza che lotta con tutte le forze per non essere inghiottito dall'oscurità e dal disincanto. Nel finale, infatti, dopo l'ultimo terribile torto subito, la giovane si rialza e attraversa il bosco insieme a una banda di allegri musici itineranti. E accompagnata dalla loro vivacità e vitalità, mentre una lacrima di mascara le scende lungo la guancia, Cabiria torna a sorridere, pronta ad affrontare ciò che la vita ha ancora in serbo per lei. 

Nell'opera, sincero affresco dell'Italia che fu dal punto di vista di una fanciulla sbandata, non mancano neanche le stoccate al potere costituito, alla religione istituzionale che rivela tutta la sua falsità e la sua artificiosità e fa leva sulla credulità della povera gente. Il distacco della Chiesa dagli umili e dagli oppressi si fa più evidente quando Fellini ci mostra figure come quella dell'uomo misterioso che aiuta i poveri abitanti delle grotte o il simpatico Fra' Giovanni, tutte figure iconiche e significative per quanto relegate a scene fugaci.  

Memorabile anche la parte relativa allo spettacolo messo su da un mago ciarlatano che ipnotizza Cabiria ed espone i suoi sogni candidi e innocenti (a dispetto della vita sordida da lei condotta) al pubblico ludibrio. In pochi hanno saputo dare con onestà la parola alle creature ai margini e, tra costoro, Fellini merita indubbiamente una menzione d'onore.    

I più cinici si limiteranno a dire che la piccola Cabiria è il trionfo dell'ingenuità (talvolta nascosta dietro una maschera di arroganza), io preferisco leggere nella sua storia una parabola della purezza.

E in assenza di parole più degne per concludere la recensione di un'opera che mi ha davvero toccato nel profondo, mi accodo alla lacrima di Cabiria, uno dei personaggi più sinceri e sentiti della sterminata galleria felliniana e della cinematografia tutta.  

 

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