Un disco inquieto, nel quale serpeggia una cupezza che ben si riflette nei riflessi freddi del titolo e nei colori spenti di una copertina vagamente angosciante. Il terzo album di Leslie Feist non è certo fatto per ammaliare l’ascoltatore al primo impatto, ma con il passare degli ascolti le sue qualità si svelano sempre più. Con una voce ormai matura – non bella, ma peculiare e, a suo modo, conturbante – l’autrice inizia il lavoro come una versione autunnale di Carole King e lo conclude con più di uno sguardo alla sua illustre compatriota Joni Mitchell.

Nei primi brani gli arrangiamenti sono più corposi, ma non è detto che fiati, tastiere e chitarre elettriche contribuiscano ad alleggerire l’atmosfera: qua e là, come in ‘Graveyard’, sono anzi fondamentali per generare un innegabile senso di malessere. Col passare delle canzoni, poi, si accentuano i toni intimistici – annunciati già al terzo brano da ‘Caught in a long wind’ – ed è soprattutto l’interazione tra canto e chitarra a offrire i momenti più emozionanti, tanto che qualche deviazione, come il non indovinato ritornello di ‘Cicadas & Gulls’, rischia talvolta di rovinare l’effetto.

Fra i passaggi più riusciti si trovano allora il folk dalla quasi impalpabile patina pop che contraddistingue ‘Bittersweet Melodies’ e ‘Comfort Me’, mentre ‘Anti Pioneer’ mette in mostra qualche fragranza soul: la conclusione di ‘Get it Wrong, Get it Right’, invece, restituisce ancora una Feist intima e acustica che, in punta di piedi, si accomiata dal suo pubblico che non può non essere soddisfatto di un lavoro ombroso (nelle musiche come nelle parole) ma ricco di qualità.

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