“E’ una pianta strana questa: è forte se cresce dove è nata; è debole appena la sposti da un’altra parte”.
Questo è Bruno.
Un montanaro di quelli veri e di altri tempi. Dalle nostre parte si definirebbe “taià zo col manaròt!”. Un bambino già adulto di poche, pochissime parole, che vive in simbiosi con le sue montagne, i suoi torrenti, boschi, pascoli, prati, pietre, sentieri e bestie. A 12 anni incontra un coetaneo curioso che trascorre le vacanze estive nel paesino sperduto tra i monti della Val D’Aosta.
Pietro è un cittadino della grigia Torino e intreccia progressivamente, con timidezza, un’amicizia profonda con Bruno; un legame vero e semplice vivendo pienamente il territorio montano. Pochi dialoghi tra di loro, quasi adulti per pronfondità, e tanto spazio alle immagini. Inquadrature spesso strette con dovizia di attenzioni ai particolari per unire Pietro e Bruno a quella terra. Grande importanza viene data al sonoro, ai silenzi che ben rappresentano il ritorno alla pace dopo mesi di caos frenetico.
Pietro e Bruno hanno già due vite apparecchiate: una è una strada asfaltata, l’altra è più stretta e piena di curve. Non fanno per loro e le rifiutano in tempi e modi diversi. La montagna unisce ed è un legame silente ed indissolubile che sa aspettare, cova come le braci all’interno di un camino che conserva il calore. I due ragazzi si perdono per 15 anni ed infine si ritrovano più che trentenni ed è come se il tempo non fosse trascorso.
Bruno è duro e puro ed anche quando si creerà una sua famiglia farà emergere il suo lato più negativo ed egoistico che non gli permetterà di scendere a compromessi rispetto al tipo di vita che aveva deciso di vivere. Se ne vuole stare nella sua montagna in centro a tutte le altre ed è disposto a pagarne le estreme conseguenze. Mi ricorda per determinazione ed egoismo nei confronti dei suoi cari quel mio amico che alla fine se lo è preso una valanga a 26 anni a 7800 metri di altezza in Himalaya. Pietro invece è più romantico ed è alla disperata ricerca di un senso: sa che non può trovarlo nei confini di quella prima montagna, da cui fa fatica ad allontanarsi, e che non vuole fare la fine di suo padre incastrato in un'esistenza piena di doveri ed incombenze. Già suo padre... Una figura molto bella che mi ha ricordato per certi versi il mio. Ligio e rigoroso al lavoro ma con un animo nascosto più selvaggio e libero che, per far quadrare i conti e dare tutto ai suoi figli, teneva represso per 11 mesi e mezzo l’anno.
Sui montanari, quelli veri, puoi sempre fare affidamento: le vere amicizie sono quelle che stanno silenti per anni e che poi si fanno sentire solo quando veramente ne hai bisogno. Ripenso a Cris che se ne sta su in una frazione sotto la Marmolada in alta "Val de Fascia", non lo sento da anni ma se gli chiedessi una mano sarebbe qui da me in un lampo e così io. Non ce lo diciamo, ma lo sappiamo. Bruno e Pietro cementano la loro con il sudore e la fatica costruendo la baita che il padre di Pietro aveva sempre sognato: nel mezzo del nulla più assoluto tra le sue montagne. Ed è durante questa impresa che Pietro capisce e realizza che non aveva conosciuto suo papà, che lo aveva giudicato in maniera troppo severa. 10 anni buttati per orgoglio senza riconciliarsi ed un rimpianto che non riesce a buttarlo giù, non c’è grappa che tenga!
“Non si può sempre tornare alla montagna che sta al centro di tutte le altre, e all’inizio della propria storia. E così non resta che vagare per le otto montagne per chi, sulla prima e più alta ha perso un amico”.
Questo è Pietro.
Non ho apprezzato la voce fuori campo di Marinelli, troppo teatrale, e posso capire che per chi non è amante dei paesaggi alpini i tempi dell’opera in alcuni momenti sono forse troppo lenti: con un minutaggio di due ore complessive sarebbe stato ancora più bello e fruibile. La fotografia è di livello, ma non così spettacolare come sarebbe potuta essere: secondo me è stata una scelta ponderata perché il focus erano i legami personali con il minimo comun denominatore rappresentato dal fascino della aspra montagna e questo è anche il motivo per cui la prima parte, quella dell’infanzia, è stata così lunga. Solida e convincente la prova di Borghi e Marinelli e condivido la scelta di limitare la colonna sonora per dare spazio al suono naturale con dialoghi, sì ridotti all’osso, ma taglienti.
Io sono cresciuto tra i monti e le valli del Trentino e le persone con le quali ho conosciuto il territorio sopra casa, quello selvaggio del Lagorai e delle Dolomiti Occidentali e Orientali poi, sono quelle a me più cari. Ricordi vivissimi e pieni come le emozioni del primo 3000, la prima ferrata, la prima alta via, la prima “via” da secondo, il primo temporale in quota con la cerata, il rumore della picca che scava ed i ramponi che ti baciano i polpacci in discesa, la paura vivissima di un passaggio esposto su una cengia o della vista di una vipera, la grattata della gamba sul granito, le vesciche fino alla carne, i piedi nel torrente rigenerante, le notti al rifugio e la partenza con il frontalino e le stelle scintillanti, le progressioni in ghiacciaio, le sbronze al rientro e le risa! Ma soprattutto i silenzi e quegli spazi immensi dall’alto dopo tutta quella fatica, quel sapere di sale, con il vento gelido che ti sferza e saluta. Lassù io sto bene e con quelle poche persone che capiscono la bellezza mai rumorosa di tutto questo io riesco ad aprirmi veramente e questo mi fa venire voglia di ritornarci, ancora ed ancora.
Sì, io ci ho trovato tanta verità in questo “Le otto Montagne” e pur non essendo un capolavoro ve lo consiglio.
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