Siamo in Brasile, circa metà degli anni '60.
La città di Dio è un quartiere allo sbando di Rio de Janeiro, ancora in costruzione ma già pronto ad essere abbandonato o a diventare una favela; un terreno fertile per crimini e violenze, ma non ancora sufficientemente guasto per l'anarchia.
Quella arriva negli anni '80.
I due ragazzi di cui avevamo seguito l'infanzia sono adulti, le vicende che hanno visto la morte dei loro famigliari e dei loro amici sono il passato, e ormai hanno intrapreso strade diverse: il primo ha scelto di non diventare un criminale e di soffrire aspettando l'occasione che lo trascinerà fuori dall'inferno. L'altro, che già si era distinto per le atrocità compiute fin dall'infanzia, si è circondato da fedelissimi e ha deciso di far proprio l'intero quartiere. Ovviamente il bagno di sangue che sancirà l'inizio della sua ascesa non sarà che il preludio alla carneficina vera e propria, che si protrarrà a dismisura nel momento in cui non resteranno che due clan a combattersi tra loro.
Probabilmente il miglior lungometraggio mai giunto qui da noi dal paese della samba, "La Città di Dio" è più di un film e più di un documentario: è una copia carbone della situazione reale nelle favelas. Un clima di degrado che si insinua nella gente stessa, un luogo ove la vita non vale niente e dove la violenza compra quello che il denaro non può. Non a caso l'azione ci viene sempre mostrata con l'occhio e la voce narrante di uno dei protagonisti, l'immersione è totale è il clima di insicurezza e di orrore diventa palpabile. Diventa subito chiaro come la legge del più forte sia l'unica istituzione presente e a cui tutti devono sottostare: non importa se colui che sbaglia è un bambino di 8 anni, niente gli eviterà di prendersi una pallottola in testa.
Il cast, seppur alle prime esperienze, regala una performance di ottimo livello, più reale della realtà; una regia agile ed intelligente, che si appoggia su una sceneggiatura a prova di bomba e che per certi versi ricorda alcuni scritti di Scorsese, fa il resto.
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