Uno dei tanti miti che circondano gli anni '60, musicalmente parlando, è quello di decennio che ha dato origine a tutta la musica successiva, il cui fallout è tuttora vivo nel nostro presente musicale. Tale assunto spesso sottintende la superiorità, qualitativa e quantitativa del decennio formidabile, rispetto a quelli che lo seguirono. Personalmente, sono abbastanza concorde sul primo punto, sul secondo sinceramente non molto, perchè non ha fortunatamente alcun senso confrontare musiche lontane nel tempo cercando un trait d'union qualitativo.

Per quanto riguarda il ruolo di apripista per i decenni musicali a venire, c'è poco da discutere. Per quanto blues, jazz e musica concreta erano già comparse sulla scena, gli anni '60 ebbero il merito di catalizzare il passato musicale, rimescolarlo, masticarlo e riproporlo in maniera nuova e mutante, originando musiche tra le più disparate.

Capita quindi che, rovistando nell'armadio dei 60's, ci si possa imbattere in band poco conosciute come i californiani Fifty Foot Hose, il cui unico album, “Cauldron”, ben rappresenta quanto sopra descritto. Un calderone dentro il quale il bassista Louis Marcheschi, i coniugi Blossom (lei voce, lui chitarra) si divertirono a mescolare ingredienti fra i più disparati, tra i quali approccio garage, tanta elettronica primitiva, atmosfere folk, psichedelia distorta, spruzzate di musica concreta. Risultato? Una pozione dalle innate doti rigeneranti e dopanti, degna del miglior Panoramix.

In pratica un disco avulso dal suo tempo, tanto i brani contenuti sembrano provenire da altri periodi storici. Partendo dai brevi interludi elettronici che si alternano a tracce vere e proprie, fra proto ambient e rumorismo, quasi un anno zero per le sperimentazioni dell'elettronica a venire. I brani sono tutti degni di menzione, dalla melodia ascendente di “If Not This Time”, passando per l'elettro-blues stellare di “The Thing That Concern You”, il proto sound sabbathiano di “Red The Sign Post”, la ballata sintetica a lento rilascio di LSD di “Rose”, una cover cosmic folk di Billie Holiday (“God Bless The Child”) fino ad una titletrack per voci processate, gemiti da film di Vincent Price, tetra colonna sonora per una personale strage di Bel Air. Infine ci sono i 10 minuti di “Fantasy”, in cui si parte elettronici, si continua su binari psych rock, ci si inquieta con spruzzate di proto synth malati e si finisce sfiancati su ritmiche forsennate.

“Cauldron” è uno dei migliori trip musicali in cui vi potrete imbattere, e non solo relativamente al panorama musicale dei '60, visto che al suo interno si scorgono, come in un immaginifico collage fatto con una primitiva macchina del tempo, accecanti lampi di musiche dei decenni a venire.

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