Cesare Pavese sull'ultima del suo diario scriveva che "più il dolore è determinato e preciso, più l'istinto della vita si dibatte, e cade l'idea del suicidio". Aggiungerà solo un rigo più in sotto per dire che nemmeno lui ci credeva più (ma "sembrava facile, a pensarci"). Il suo diario terminava lì. La sua travagliata esistenza sarebbe terminata una settimana dopo in una camera di un hotel a Roma, in una torrida giornata d'agosto raggelata da quel suo inevitabile gesto.
Ma Pavese era stato ormai vinto dall'amarezza e dall'impossibilità della vita per un anima sensibile e quindi vulnerabile come la sua. Solo trasponendo quella considerazione in un contesto meno fatale, ci si accorge che quella frase non può essere che veritiera. Il dolore scalda le vene, da' sempre un motivo in più per vivere. Non sarebbe mai esistito il Rock, se qualcuno non avesse mai avuto un Blues da piangere. Nessuno avrebbe mai avuto qualcosa da dire, se nessuno avesse mai assaporato l'amarognolo sapore della sconfitta. Tutto nasce e finisce con esso.
Non è un parallelismo casuale quello mi accingo a fare. I Fine Before You Came lo sanno bene. Ragazzini della grigia e claustrofobica periferia milanese, abituati a urlare dentro a un microfono per esorcizzare i propri demoni. Nati come anonimo gruppo che si rifaceva al calderone emo-core d'oltre-oceano, dai Get Up Kids ai Cap'n Jazz, la svolta per loro arriva con questo loro quarto disco in studio, costato più lacrime e delusioni che soldi. Macchine sono andate inspiegabilmente in panne, gatti si sono improvvisamente ammalati, i furgoni con tutta la strumentazione dentro sono stati rubati e poi finiti sotto un treno e a qualcuno è addirittura venuto il diabete durante la genesi di questo disco. Sembrava che tutto, in quel momento, accadesse solo e soltanto nel loro microcosmo. Loro cinque di musica non campano e, probabilmente, non camperanno mai; urlare in un microfono restava ancora l'unico modo per esorcizzare i propri demoni. Sembrava impossibile pubblicare quel disco e hanno dovuto rifare da zero il tutto parecchie volte. Ma - diranno poi, superato lo scoglio - la sfortuna non esiste, ma ora esiste "S F O R T U N A" (scritto a caratteri cubitali sulla copertina, per ribadire il concetto) e loro non posso che esserne felici. Solo il Dolore per un sogno che sembrava svanito non li ha fatti rinunciare sul più bello.
"S F O R T U N A" - stampato dalla Triste Records in vinile; dalla Ammagar in cassetta; dalla Tempesta in CD - può suonare come solo uno che si è sentito crollare il proprio mondo sotto ai piedi riuscirebbe a suonare. Lo spleen tardo-adolescenziale degli esordi rimane ma convertito in un romanzo d'amarezza e di delusione. Nell'iniziale "Lista" vi sembrerà di sentire degli Slint spogliati di quella loro gelida crepuscolarità di "Spiderland" e messi al servizio dei sentimenti. E poi è tutto un flusso di coscienza. "Buio" è l'amara constatazione di quello che si prova a essere immobili quando il mondo continua a muoversi senza alcun senso; "Fede" e "O è un cerchio che si chiude" parlano di storie d'amore burrascosamente finite con un lirismo surreale - quasi pittoresco - e disincantato che le rende ancora più commoventi. Le urla di "Piovono pietre" sono un'altra, ennesima conferma che questa è musica al servizio dei nervi. In "Natale" tutto si intreccia alla perfezione per poi chiudersi in una lunga coda psichedelica. "VIXI" è l'epitaffio finale, la canzone che più da' senso al disco e lo sfogo definitivo di tutte queste lacrime: quel "ho chiamato i miei insuccessi Sfortuna" lo canterete migliaia di volte, solo per la sua disarmante universalità.
"S F O R T U N A", 2009: la sfiga ha un nuovo fascino.
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