C’è un piccolo scrigno sepolto in fondo agli anni ’80. Era il 1988, piena epoca Bush sr., nei negozi arrivavano ogni giorno vagoni di cassette di Tracy Chapman e Prince, i più alternativi impazzivano per Sonic Youth e R.E.M., la Guerra del Golfo non era ancora arrivata e Roger Rabbit sembrava insuperabile, altro che Shrek. Un giorno passò per radio il nuovo singolo dei Fine Young Cannibals, un super-trio di Birmingham formato dagli ex-English Beat Andy Cox (chitarra) e David Steele (basso e tastiere) e dal carismatico vocal-jazzer Roland Gift. Si chiamava “She Drives Me Crazy”, una “canzonetta“ che non sarà certo il titolo a ricordarvela, bensì quell’inconfondibile, irresistibile ritmo sincopato, la batteria elettronica e le schitarrate funky distorte. E quella voce, unica, sexy e normalissima, intensa ma senza pretese.
Cominciai a impazzire per quella canzone, per il simpatico video che caldeggiava ogni giorno Cecchetto (quel disgraziato) e decisi di fare il grande passo. Comprai il primo cd della mia vita. Aveva un suono perfetto, e c’era scritto che l’avevano fatto in Germania Ovest. Beh, fu un’ottima, inconsapevole scelta. I FYC erano un piccolo ma attivo progetto che già col primo album (“Fine Young Cannibals”, 1985) e con lo stupendo 45 “Johnny Come Home” avevano mostrato le pregevoli caratteristiche del loro suono, un retroterra di soul-bianco condito da dance-rock ben curato e spiccato senso per la melodia. Con il secondo album, questo “The Raw & The Cooked” fecero quello che il Rolling Stone definì “il salto decisivo”. Una volta trovata la perfetta sintesi tra l’anima ska-rock-dancehall di Cox e Steele e la vena jazz-swingeggiante di Gift (che proveniva da una band R'n' B, dove era anche sassofonista), viene creato un meraviglioso album di famiglia. I FYC esprimono una perfetto e stabilissimo senso di leggerezza nel comporre diamanti pop da incastonare su qualsiasi tipo di composizione. Dal gioioso soul-mod di “Good Thing” alla riflessiva e torrida “I’m Not The Man I Used To Be”, dal retro-Motown di “Tell Me What” (con tanto di potenti cori gospel e organetto alla Percy Sledge) veniamo sorpresi sempre più dalla compattezza di un album che credevamo pieno di riempitivi adatti solo a sorreggere l’hit single sopra citato. Al contrario le dieci tracce sono state confezionate con amore e rispetto per la musica, il suo mondo, i suoi fedeli seguaci. Non solo si riesce comunque a tenere su buoni livelli lo standard di un album da classifica, ma si riesce a elevarlo a piccolo capolavoro del pop, con testi mai banali che anzi vogliono approfittare della grossa visibilità del momento per darci messaggi veri, lamentandosi per la società del periodo (“I’m Not Satisfied”), lanciando sofferti incoraggiamenti (“Don’t Let It Get You Down”) o saggi consigli (in “Don’t Look Back”, dalle splendide chitarre jangle-pop con emozionanti ritmi vocali di Roland, che tenta di far incontrare Joe Strummer e Cindy Lauper). Le invenzioni sonore sono di altissimo livello, Gift sembra divertirsi a cimentarsi in nuovi timbri e peripezie tonali da brano a brano, passando dai falsetti a discese da consumato crooner come nel pastiche anni ’50 della meravigliosa storia d’abbandono “As Hard As It Is”. Ad accompagnarlo c’è un suono personalissimo, felice ma con una sottile vena di sarcasmo, che finisce per diventare semplicemente “il sound alla Fine Young Cannibals”: arrangiamenti delicati ma taglienti, un recupero del soul e del rock classico, ovvero delle radici della musica pop(olare) rispettivamente nera e bianca, fuse insieme in un concentrato fresco e moderno, memore delle rivoluzioni della new wave e dell’emergente musica house, con predisposizione a pezzi molto sensibili, sincopati, pieni di groove e orecchiabilità.
Lo sforzo di unire quindi la storia del pop in un album relativamente sfavorito e destinato ad essere snobbato da chi già era intento ad adorare U2 o Smiths (per far due illustri esempi) non fa desistere la band dalla creazione di una grande, umile opera. Sono semplici cultori di musica, che fecero ballare noi, la fascia spenseriata che però voleva “qualcosa di più“. Ma era uno di quegli album che pur invecchiando con difficoltà (ragazzi, il periodo è quello) riesce ad acquisire un valore maggiore col passare del tempo. Come un libro che ci hanno regalato da piccoli, che adoriamo solo per le belle illustrazioni e poi quando siamo più grandi scopriamo che c’era dentro anche una storia importante, bellissima, ma che a quei tempi non potevamo apprezzare. E chi lo sapeva allora che la fantastica “Ever Fallen In Love” era uno stravolto (e altrettanto goloso) omaggio ai Buzzcocks??
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