Se da un lato questo "Birdking" ha decisamente poche novità da offrire in pasto a chi già conosce l'arte di Ian Read, dall'altro ha il merito di riportare la musica dei Fire + Ice ai fasti di un album fondamentale come "Hollow Ways".
Torna l'impareggiabile chitarra di Michael Cashmore (Current 93), che, come era successo nell'album appena citato, anche in questa sede è in grado di elargire classe e perizia a volontà, facendoci sognare come sempre con i suoi arpeggi magici e cristallini. Ed è questa forse la vera marcia in più di "Birdking", che si fregia anche del contributo di nomi più o meno illustri della scena neo-folk, fra cui Douglas P. , Michael Moynihan e Annabel Lee dei Blood Axis e Richard Leviathan, polistrumentista e più volte collaboratore di Douglas P. , sia nei Death in June stessi che negli Scorpion Wind con Boyd Rice e James Murphy. Artisti e amici che vanno ad impreziosire con il loro talento l'ennesimo colpo messo a segno da parte di Ian Read.
Ian Read si è infatti negli anni dimostrato un artista sincero e coerente, dal rigore inattaccabile e con un profilo intellettuale solido e ben definito. Un artista che ha saputo inanellare nell'oscurità una serie di pregevoli lavori, sempre animati da una forte convinzione e fondati su una reale urgenza artistica. Forse proprio il fatto che Read non abbia mai vantato un seguito oceanico, e che quindi abbia potuto operare in totale tranquillità ed assoluta assenza di pressioni, ha fatto sì che la sua arte rilucesse ogni volta di una ispirazione e di un coivolgimento che sono tipiche di chi suona perché semplicemente ha qualcosa da dire e non perché deve onorare un contratto con la propria casa discografica. Come dire: meno siamo e meglio stiamo.
Questo "Birdking", come dicevo, va ad abbracciare nuovamente la dimensione folk acustica che era stata momentaneamente accantonata con le atmosfere misticheggianti di "Runa". Gli ingredienti sono quindi quelli di sempre: ottimi arpeggi, incursioni di archi e fiati, formidabili giri di harmonium, qualche intrusione femminile a vivacizzare il tutto, e l'immancabile canto sofferto di Ian Read. Il tutto, questa volta, valorizzato da una produzione finalmente all'altezza dei contenuti artistici e da una maggiore attenzione esecutiva, volta a limitare quelle sbavature che avevano in passato pregiudicato, in parte, il risultato finale. Che dire, l'unico disappunto è il fatto che niente aggiunge a quanto detto fino ad adesso dall'artista inglese, e che per questo probabilmente l'ascolto risentirà di un vago senso di déja-vu, dato che le soluzioni sono quelle di sempre e la voce di Read è quello che è, più o meno stazionata sulle stesse tonalità. E' d'altro canto vero che chi ama questo artista non rimarrà certamente deluso da un album che non presenta alcun punto di cedimento e che scorre che è una vera bellezza. Un album dalle mille occasioni, da ascoltare nel buio della propria camera da letto, come sotto il cielo luminoso di una bella giornata di sole, purché si sia soli ed in cerca di un intimo contatto con noi stessi o con il mondo circostante. La fluida voce di Read ci aiuta ancora una volta a squarciare il velo delle apparenze, a trascendere il reale e ricercare l'essenza delle cose.
Questa volta, il nostro viaggio si muove con l'eleganza e la raffinatezza di dodici gioielli ben incastonati fra loro. Fatevi rapire da "Dragons in the Sunsect", degna erede di un pezzo stellare come "Lord of the Secrets", cantata all'unisono da Read e dal chitarrista Joseph Budenholzer. Fatevi portare lontano dalla poesia della title-track, una gemma di folk apocalittico i cui intrecci di chitarre e harmonium (ad opera del sempre ottimo Cashmore) ricordano non poco le atmosfere di un lavoro superlativo come "Sleep Has His House" dei Current 93. Sognate sull'onda delle travolgenti cavalcate acustiche di "The Lady of the Vanir" e "Take my Hand", la prima impreziosita dal canto evocativo di Alice Karlsdottir, molto vicina alle evoluzioni canore di Shirley Collins, la seconda, invece, contraddistinta dall'inconfondibile tocco di Douglas P. , alla chitarra e al piano. Abbandonatevi alla malinconia di "Greyhead", impreziosita dal violino della Lee e dalle percussioni di Moynihan. Ascendete infine sulle note dell'organo di "My Brother", in cui la voce leggiadra di Read si libra nell'aria tessendo struggenti trame.
Ian Read, nel 2000, ci appare ancora in forma smagliante, ben lontano dalla pensione, a contrario di altri esponenti della scena, dimostrando una longevità ed una ispirazione fuori dal comune, tali da fargli meritare il massimo rispetto. Come un buon vino, Ian Read invecchiando sembra migliorare, e questo "Birdking" ne è l'esempio lampante. Consigliato a chi si vuole avvicinare per la prima volta a questo artista fondamentale, mai apprezzato a sufficienza.
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