Torna Ian Read, torna a modo suo, con fare dimesso, in punta di piedi. Erano passati dodici anni dall'uscita di “Birdking”, ultimo lavoro in studio dei suoi Fire + Ice. La pubblicazione a sorpresa, sul finire di questo 2012, di “Fractured Man” è tuttavia un evento che non fa clamore, anche se Ian Read è un pilastro fondante del folk apocalittico, anche se dodici anni sono un lasso di tempo francamente eccessivo per sopportare un'assenza del genere, anche se in questi ultimi anni la buona novella di Ian Read è stata accolta e messa in pratica molto di più di quanto lo sia stata quella professata da nomi ben più blasonati del genere.
Forseti, Sonne Hagal, Orplid, Darkwood, Unto Ashes, In Gowan Ring sono solo i primi nomi che mi vengono in mente di coloro che hanno assunto come linea guida l'arte, non di Douglas Pearce, non di David Tibet, non di Tony Wakeford, ma di Ian Read: il Read delle rune, della mitologia pagana, della natura incontaminata, dell'anti-modernità. Il folk di queste band è solo l'estrinsecazione odierna della musica ancestrale dei Fire + Ice, ed è apprezzabile il fatto che le nuove leve, sul volgere del terzo millennio, abbiano deciso di bandire i cliché del genere, l'armamentario industriale, il passo marziale, per dirigersi verso un folklore nella sua forma più essenziale, un medium che non guarda alla forma ma che punta dritto alle emozioni. Ed è bello che torni a parlare colui che per primo ha saputo sposare il fascino umbratile di un dark-folk d'autore ad una rigorosa ricerca, e spirituale e filosofica. Per gli appassionati del genere Ian Read non ha del resto bisogno di presentazioni: prima braccio destro di Wakeford in forza nei Sol Invictus ai loro esordi, poi da solo con i suoi Fire + Ice, più che una band vera e propria, un collettivo spesso mutevole stretto attorno alla figura carismatica del cantante inglese.
Ad accompagnarlo in questo nuovo viaggio troviamo una nutrita schiera di vecchi e nuovi amici: ci sono i tedeschi Sonne Hagel (che appongono la loro firma su ben tre pezzi), ci sono gli americani Unto Ashes (Michael Laird mette le mani un po' dappertutto), ci sono Annabel Lee e Michael Moynihan (è bene rammentare quanto i Blood Axis, nella loro svolta folk, abbiano tratto ispirazione dallo stesso Read). E poi c'è Douglas Pearce, protagonista in un paio di pezzi.
Attenzione attenzione: fra tutti i contributi appena menzionati, quella di Pearce è la comparsata che meno costituisce garanzia di qualità (fra l'altro Read il suo capolavoro, “Runa”, l'ha confezionato fra perfetti sconosciuti): Pearce è un finito, questa non è una novità; già la sua partecipazione nel precedente “Birdking” era stata poca cosa, e che oggi non faccia lui la differenza si capisce già dal trascurabile episodio “Caratacus”, un arpeggio di chitarra buttato lì come se niente fosse. Ehi! Sei Douglas Pearce! E questo è l'ultimo album dei Fire + Ice! L'ultimo dopo dodici anni di nulla! Ma certa gente non ha evidentemente la consapevolezza del proprio peso storico. Il primo in questo è Read, che se ne ritorna dopo dodici anni di silenzio con un lavoro risicato, di appena quaranta minuti o poco più, dove fra l'altro non scrive neppure tutte le canzoni: tre le fa suonare ai Sonne Hagal, tre agli Unto Ashes, qui ci mette il violino della Lee, qua le percussioni di Mohynihan, là le strimpellate di chitarra di quel finito di Douglas Pearce.
Ian Read, che nella foto del booklet si fa ritrarre come un povero vecchio in gita la domenica nel boschetto: quanto è invecchiato Ian Read, con il cappello e la polo ficcata nei pantaloni, e quante rughe in più ci sono sul volto sorridente di Annabel Lee, in posa di famiglia, stretta nell'abbraccio del compagno Michael Moynihan e di nonno Read.
Eppure gente, “Fractured Man”, a pochi giorni dalla sua uscita, è già un classico del genere, o perlomeno un bel lavoro da mettere accanto agli altri bei lavori dei Fire + Ice: Ian Read, artista schivo e poco incline alla luce dei “riflettori”, se torna non lo fa per soldi, se torna lo fa perché ha qualcosa da dire. E come lo dice: la title-track, posta in apertura, è pelle d'oca allo stato puro. Non si capisce perché (considerato che il brano è elementare, basandosi su un greve oscillare di harmonium e l'invocazione misticheggiante di Read), ma, pur nella sua semplicità, questa composizione era il miglior modo per rompere gli indugi, è un sipario che si apre maestosamente, gettando in platea una luce che riscalda e che ci permette di riassaporare emozioni che avevamo dimenticato di aver un giorno provato. L'opener è già un classico, come lo è la terza traccia “Treasure House” (che riprende il flusso magico interrotto per un istante dalla citata “Caratacus”, trascurabile parentesi strumentale): dopo anni in cui nel nostro stereo hanno girato i dischi dei Forseti, dei Darkwood, degli Orplid, dei Sonne Hagel, torna finalmente il Maestro a raccontarci la stessa storia, ma con la stoffa del campione, a dimostrare a tutti come si possa andare oltre senza bisogno di orchestre o chissà quali altri artifici: solo un lento trascorrere di accordi di chitarra acustica, le carezze dei droni, il rintocco di mesti tamburi e il canto magnetico e visionario di Ian Read, che ipnotizza, che strega, che ti porta altrove. Con il minimo dello sforzo, e con tutte quelle sbavature che nel tempo abbiamo imparato a perdonargli: “Treasure House”, nella sua essenzialità, è già un classico dei Fire + Ice, o perlomeno una bellissima canzone da mettere accanto alle altre bellissime canzoni che i Fire + Ice ci hanno regalato nel corso della loro carriera.
A proposito: il sound dell'album, benché maggiormente oscuro, non si distanzia molto da quanto proposto in “Birdking”; non vi è certo il rigore di “Runa” e la solidità del concept che vi stava dietro, ma un passo verso quelle atmosfere viene effettivamente compiuto. Perché se in “Birdking” il tocco di un artista eccelso come Michael Cashmore aveva conferito brillantezza, varietà, vita pulsante alle composizioni di Read, con “Fractured Man” si piomba nuovamente nella diaspora di una ricerca della verità che viene condotta nelle tenebre, attraverso la decifrazione di arcane simbologie.
I compagni di viaggio, senza mai stupire, confezionano un commento musicale aggraziato, un flusso omogeneo interrotto solamente dalla vivace chitarra elettrica impiegata nella stravagante cover di “Mr Wednesday” dei misconosciuti The Lykes of Yew (brano che vede la partecipazione di Terry Davey, militante negli stessi Lykes of Yew) o da sporadici guizzi di individualità (si pensi ai leggiadri volteggi del violino della sempre ottima Annabel Lee in “Aelfsiden”): una dimensione di sofferto ermetismo dove a portare la luce è sempre e comunque il canto ispirato di Ian Read, la sua voce imperfetta ma estremamente eloquente, che si fa rassicurante sussurro in “Nimm”, spossato e stanco rantolo in “Have You Seen?”, verbo imperioso in “Verloschen”, nenia cantilenante in “Jabal and Tubal Cain”, senza mai però scadere nella rassegnazione.
Un tono dimesso, un afflato crepuscolare, fatto anche di fratture e manifestazioni di una intimità incrinata da grandi quesiti esistenziali, tutti elementi che avvolgono le dieci ballate di cui si compone “Fractured Man”: l'inanellarsi, fra momenti interlocutori e picchi di intensa e fragile emotività, delle tappe di un percorso accidentato, di un cammino irrequieto che conduce ahimè troppo presto alla fine del viaggio. Siamo giunti così all'ultima traccia “Fractured Again”, eseguita nuovamente da Pearce, il quale ci traghetta dalle parti delle sue ultime cose: eccellente ballata che pone il sigillo all'ultimo lavoro dei Fire + Ice, sfoggiando nel finale cori femminili e la voce alienata dello stesso Pearce, padre di tutti noi, che sarà anche un finito, ma alla fine pompa sempre.
Pare proprio che certa gente non abbia la consapevolezza del proprio peso storico. Pensate: tornare dopo dodici anni di silenzio e lasciare l'ultima parola a Pearce!
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