Di solito (e non penso di essere l'unico) tendo ad associare un album ai colori della sua copertina. Tanto per citare album e copertine note un po' a tutti: "The Dark Side of the Moon" mi evoca l'azzurro, "Velvet Underground & Nico" il bianco e il giallo, e Sgt Pepper's Lonely Hearts Club Band" un bombardamento di colori su uno sfondo rosso.
Questo "Midwinter Fires" è per me l'eccezione che conferma la regola. La copertina, seppur non allegra, è comunque variopinta: eppure agli occhi della mia mente questa musica si manifesta nera. Nera di un nero che più nero non si può: un buio solo leggermente (dico leggermente) rischiarato dal fuoco flebile di una gracile candela.
Questo perché le composizioni sembrano muoversi a tentoni nel buio denso di un labirinto, fra le frasche di un sentiero in un bosco di notte: incespicano le percussioni, incerte le chitarre acustiche, che procedono cautamente a braccetto con le tastiere, mentre la voce di Ian Read trema, vacilla, freme come la debole fiamma di una fiaccola.
E' la sempiterna ricerca di Ian Read, piccolo Zarathustra predicatore di saggezza e virtù, inquieto viandante da sempre alla scoperta dei segreti che si celano dietro alle rune, i misteriosi simboli che ci hanno tramandato gli antichi.
E non a caso "Midwinter Fires", del 1995, anticipa le atmosfere di quello che sarà il capolavoro concettuale di Ian Read: "Rûna". Qui vi troviamo infatti la stessa formazione (Ian Pirrie, chitarra acustica, e Matthew Butler, tastiere e percussioni, con l'aggiunta della dolce Joolie Woods, dei Current 93, al violino e alla voce). E qui germoglia, seppur in modo incerto, quel percorso intimo e personale che troverà completa espressione nel prodigioso lavoro successivo.
Ad un primo ascolto il tutto ci potrà apparire però fiacco e tedioso, e, a dirla tutta, nemmeno troppo ben confezionato (ricordiamoci delle immancabili stecche con cui il cantante ama da sempre deliziarci!). Eppure, ascolto dopo ascolto, questo lavoro finirà per conquistarci, attraverso i suoi enigmi, i suoi quesiti irrisolti, l'alone di mistero che avvolge i brani, il fascino arcano che emana nell'insieme.
"Fael-Inis", per esempio, è un folk bislacco ed ipnotico, lontano anni luce dall'aspro romanticismo dei Sol Invictus o dalle ardite visioni apocalittiche dei Current 93. Eppure sa ammaliare, cangiante, carezzevole, sinuoso, fra il ripetersi pacato delle strofe, gli eterei controcanti della Woods e la voce piena di sentimento di Ian Read.
I pezzi si susseguono assai uniformemente: episodi più "movimentati" ("The Cause", "High Gallows Tree") si alternano ad altri che ci fanno piombare nuovamente nel buio più completo ("Reaper Man", "Olafaet"), il tutto condito da suggestivi intermezzi strumentali ("Aceldama", la title-track). Un viaggio complesso quello di Read, fatto di sussurri lontani, inafferrabili simbologie, temi che si richiamano vicendevolmente: un racconto davanti all'intimità di un falò, una storia recitata sottovoce per non disturbare gli spiriti della Notte.
Cupa, estraniante, lugubre a tratti, ma mai eccessiva od auto-compiacente, la musica dei Fire + Ice è semplice e spontanea, ma altamente emozionante. E Ian Read è fra gli esponenti del folk apocalittico quello che meno di tutti ha bisogno di stupire: artista di una integrità e di un rigore davvero fuori dalla norma, Ian Read suona e canta per se stesso, per esorcizzare i propri fantasmi e tirare fuori quel che ha dentro.
Non di certo per vendere dischi.
E proprio questa incomunicabilità fa di Ian Read anche l'artista più ermetico della scena, tanto che a tratti è difficile stargli dietro. E comprensibilmente molti non troveranno la passione, la pazienza, la determinazione necessarie per seguirlo nel suo dotto e difficile cammino.
Non che sia un album non riuscito, questo "Midwinter Fires", solo che non è evidentemente alla portata di tutti, e gli episodi più abbordabili finiscono per essere quelli che immancabilmente sconfinano nei territori del folk popolare più canonico, come "The Wind that Shakes the Barley", talmente sdolcinata da far cadere le palle.
Decisamente più intriganti l'evocativa "Wisdom, Strengo, Ellen, Bliss", la sofferta, struggente, singhiozzante ballata a cui il Nostro ci ha da tempo abituati, e "Senlac", folk serpeggiante scandito da mesti colpi di tamburo e cupi rintocchi di campana: suggestioni che vanno ad anticipare le ambientazioni allucinate di "Rûna".
Ma è nei finale, a mio parere, che vengono sparate le cartucce migliori: parlo della nebbiosa "Fokstua Hall", un procedere nel buio sospesi fra la cecità dei nostri occhi e il vigore dello spirito che ci conduce faticosamente alla meta, e la bellissima "Nine Doors", offuscata da tastiere e violini, brano in cui si viene a materializzare uno dei temi musicali che animerà il concept di "Rûna".
Un album sentito, sincero, che certamente farà la gioia dei fan più incalliti, ma che rimane, all'interno della discografia dei Fire + Ice, un episodio minore, incerto, caracollante fra il folk oscuro e pagano dei primi lavori ed il minimalismo del monumentale successore.
Chi volesse saperne qualcosa dei Fire + Ice è quindi pregato di fare prima un salto dalle parti di "Gilded by the Sun" e "Hollow Ways", oppure passare direttamente al già citato "Rûna" o al bellissimo "Birdking".
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