Quante sono oggi le cose di questo nostro porco mondo che non vanno? Al solito tante, troppe. La fame e la sete nel Darfour, le ingerenze della Chiesa nelle questioni dello Stato, le ronde di quartiere, i derivati nella finanza, fare il precario a vita e le altre aggiungetele voi.
Tutte cose che avrebbero ispirato la penna di un grasso poeta del punk rock a nome Dennis Boon.
Ma D. Boon è morto nella sua California in una sera di dicembre del 1985, uscendo di strada e ribaltandosi col suo pick-up. Aveva 28 anni. E questa è un'altra delle ingiustizie di questo nostro porco mondo. Una gigantesca ingiustizia, che se ci penso non posso fare a meno di bestemmiare. Con lui finì quella straordinaria ed incazzata avventura a tre siglata Minutemen, complessivamente circa centosessanta canzoni (meglio, schegge impazzite) in meno di cinque ore e in meno di cinque anni. Come sempre accade in questi casi, pochissimi capirono. Ma da allora il punk non fu più la stesso. Per chi scrive, dopo i Clash, la cosa più importante che capitò alla musica giovane nei primi anni ‘80. Morto il poeta, gli altri due non vollero più saperne di musica. E c'è ancora chi dice che Dio è giusto...
I francesi però sanno come funziona questo nostro porco mondo. Tout passe, tout casse, tout lasse. Poi, per fortuna, tout se remplace. L'eroe che convinse i due refrattari ex a tornare ad essere quelle macchine da guerra del ritmo, riprendendo in mano rispettivamente basso (Mike Watt) e bacchette (George Hurley) è un giovane chitarrista dell'Ohio. Si chiama Ed Crawford ed è distrutto quanto noi dal sapere che i Minutemen non esisteranno più. Ma, diversamente da noi, lui non è un fan qualunque. Lui conosce a memoria e suona perfettamente col suo strumento tutte - avete capito bene, tutte le circa centosessanta - canzoni del trio. E oltre a un simile preclaro merito, possiede anche le uniche doti che possono servire in quel momento: tenacia ed entusiasmo. Mette entrambe nella custodia della chitarra e, partito ‘fromOhio' alla volta di San Pedro, California, scampanella a sorpresa a casa dell'incredulo bassista e riesce nel miracolo. Ricostruire i... no, impossibile. Nasceranno solo i fIREHOSE.
Da quelle ceneri, rinacque della gran musica. Figlia di quella inaudita dei Minutemen, un incrocio bastardo e ipercompresso di urgenza punk, spigoloso funk-rock "bianco" e attitudine jazz free form. Ma, ovviamente, diversa. Più attenta alla forma-canzone, più matura e in un certo senso più "classica", senza attribuire a tutti questi termini valenze negative o peggio di "normalizzazione". Del resto, anche il testamentario "3-Way Tie (for last)" di Boon e soci virava già chiaramente verso questa direzione, con le canzoni che dal minuto o poco più si allungavano fin oltre i canonici tre e il suono stesso tendeva a stabilire più di una connessione con la classicità rock dei gruppi della tradizione americana.
Non è un caso che sull'etichetta del lato B dell'edizione in vinile di "If‘'n", secondo parto dei nostri uscito sul finire del 1987, proprio John Fogerty certificava di suo pugno il passaggio di testimone, indicando proprio nei fIREHOSE i più plausibili eredi dei Creedence. E come a voler collegare con un sottilissimo fil rouge classicismo rock di fine Sessanta e orgoglio "indie" di metà anni '80, sulla copertina di "If'n" fa bella mostra di sé una foto degli Hüsker Dü. Non solo, dopo aver mostrato nella loro opera prima debiti di riconoscenza con un brano dal titolo "Under the influence of Meat Puppets", qui addirittura Watt e (nuova) compagnia si lanciano nell'accorata dedica "For the singer of REM". Che altro non è che uno dei due picchi dell'album in grado di far impennare il sismografo delle nostre emozioni, forse quello più immediato e di facile presa e che decreta pertanto l'emancipazione dei fIREHOSE dall'ombra lunga dei Minutemen. L'altro arriva sul finire del disco. E' l'inattesa elegia folk per voce e chitarra acustica "In memory of Elizabeth Cotton". Spiazzante e meravigliosa.
Qui sta la grandezza di questo disco: un eclettismo mai fine a se stesso e viceversa straordinariamente coeso, per merito di tre soggetti dotati di una maturità tecnica ed esecutiva - Watt ed Hurley, chiedere conferma a chi ebbe la fortuna di vederli dal vivo, erano davvero spa-ven-to-si - che non crederesti possibile in musicisti partiti dal punk. Così si può passare indenni dall'inaugurale "Sometimes", ballata in perfetto Creedence-style che trova il contraltare nella delicata "Operation solitaire" e, sul finire del disco, il suo alter ego nell'epica "Soon". Inoltrandosi poi senza difficoltà alcuna nello spigoloso nervosismo in odor di negritudine di "Hear me", come nei para-jazzismi di "Backroads". Senza dimenticare - e poteva essere altrimenti? - la lectio immortale dei padri putativi, riveduta, corretta e dilatata in episodi asimmetrici quali "For one cums one", "Me & you remembering" (David Thomas che prende il posto del defunto Boon nei Minutemen?) o la fantastica divagazione in territori free-funk con voce quasi rap (per inciso, ai concerti facevano pure una cover dei Public Enemy) di "Making the freeway". Se poi non bastasse, ecco ancora il cazzotto alla bocca dello stomaco a mezzo della rockistica rabbia - nomen omen - della splendida "Anger" e poi, per converso, la scanzonata allure quasi pop di "Honey, please" e quella trottante della bellissima "Windmilling". Il miglior manifesto possibile dell'indie-rock, quello non ancora fagocitato da major e MTV.
Grazie, Eddy, per la tua tenacia. Sebbene... ah, questo nostro porco mondo...
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