La nicchia. Che bel posto, la nicchia.
Fa pensare subito a una cuccia calda, riparata dalle intemperie del mondo.
Un posto dove essere te stesso, senza mediazioni. Dove rilassarti e creare liberamente.

Se dovessi fare un solo nome per definire il concetto stesso di "cantautore di nicchia" in Italia, sarei incerta fra due artisti: uno di cognome fa Rossi, ma non è ovviamente Vasco.
Si chiama Fausto e ha dipinto alcune delle più profonde pagine della musica italica degli ultimi trent'anni.
L'altro è Flavio Giurato.

Uno che fa passare decenni tra un disco e l'altro, che si permette di dire che per realizzare bene una canzone può servire un anno, e quindi dieci anni per un nuovo album sono più che normali.
Un artigiano del cesello, con la faccia di un falegname, di un intagliatore.

In scena è sempre vestito con trasandatezza non ricercata, da manovale in libera uscita, e distilla ironia con un accento romano privo di volgarità.
Dai primi anni '80 ha pubblicato, al netto di qualche ristampa, sei bizzarri album. Il primo in dialetto, di struggente profondità ma ancora un po' acerbo. Il secondo, splendido ("Il tuffatore") che grazie a un fine esperto come Carlo Massarini lo portò a sfiorare un mainstream mai così poco cercato.

Il terzo, "Marco Polo", che resta a tutt'oggi uno dei massimi concept album d'avanguardia in Italia. Una specie di "Metal Machine Music". Un calcio consapevole a ogni logica pop nel momento in cui era possibile diventare "qualcuno" e rendere la musica il suo mestiere.
Da lì, da quegli infiniti mantra di una sola frase su rumorismi assortiti ("ed ecco i marinai che tirano le funi" ripetuto come un incubo per minuti interminabili), l'oblio assoluto.

Molti anni dopo, "Il manuale del cantautore" inanellò una piccola collezione di perle sconnesse e lo dichiarò ancora vitale.
Il resto è storia recente: tre anni fa con "La scomparsa di Majorana" Giurato ha dipinto una delle tele più affascinanti - e meno note - della sua carriera.

Stranamente non ha fatto passare i soliti otto/dieci anni per tornare a raccontare storie: "Le promesse del mondo" è arrivato solo un paio di anni dopo il precedente, segno di un'urgenza comunicativa inedita.
Il nuovo concept ha a che fare con l'immigrazione ma, soprattutto, con lo straniamento e con l'emarginazione.
Tema scivoloso, ad alto rischio di retorica. Ma Giurato non sa cosa sia, la retorica. Ne è geneticamente immune.
La sua voce è intagliata nella quercia, solenne ma non assertiva, convincente ma incerta, sempre sul filo di una stecca terrificante che non arriva mai (nemmeno dal vivo).
Una quercia piena di domande irrisolte.

Da "Soundcheck" alla sinistra "I lupi", dal sogno partigiano di "Monte Salario" al surrealismo latino di "Agua mineral", Flavio crea canzoni che non somigliano a niente se non alla sua arte, con sottili fumi di chitarra noise ad avvolgere ritmi ipnotici e testi di una bellezza stralunata, che mi ricordano il Buzzati più quotidiano di quel capolavoro che è "Un amore" e lo stesso Buzzati alle prese con il simbolo dell'irrisolto per eccellenza, la Fortezza Bastiani del "Deserto dei Tartari".

La perla definitiva del disco è però "Digos", sostenuta da una chitarra scarna e niente più, in cui sembrano cristallizzarsi decenni di ipocrisie e verità inconfessabili, velate da una minuscola, straziante, storia d'amore mai dichiarata.
Flavio non ha nulla da insegnare, perché la sua lezione non ha un metodo che qualcuno può rilevare e tramandare.

Il suo modo di scrivere, che salta dall'alto al basso mescolando italiano, lingue straniere e dialetti in un flusso torrenziale, è semplicemente unico, spesso disturbante, gonfio di una sincerità e ruvidezza estrema.
Flavio Giurato, con la sua faccia da legge Basaglia, i suoi silenzi eterni e le sue parole pesanti, è il più grande mistero del cantautorato italiano.
Non per tutti, anzi, solo per i pochi che hanno il tempo e la pazienza di scavare in un'argilla grezza che gronda di passione e di genio allo stato brado.

Per me, che l'ho scoperto su una cassetta tdk registratami da un amico di famiglia quando avevo undici anni, resterà sempre un faro nella nebbia. da consigliare solo a chi ha voglia di raccogliere perle dal fango della catastrofe artistica che è l'Italia del 2018.

Ecco, io Flavio Giurato lo segnalerei all'Unesco, per farlo diventare Patrimonio dell'Umanità.
Come Venezia, come la Torre di Pisa.

Flavio è un dinosauro sopravvissuto all'estinzione di massa di un intero mondo di artisti veri, in grado di fare letteratura in musica senza nessuna concessione al mercato: una roba che non si trova più da nessuna parte.

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