È il 1974 quando una band di blues/rock britannica, tipica da pub o da ritrovo non poco patriottico, pur sempre di nicchia, tra le verdi terre del nord incontra il calore e il sole d'America. Un evento unico, oserei dire. Ma qualcosa di insolito forse veramente c'è: se gli artisti e le bands britanniche amavano americanizzarsi perché così le case discografiche piagnucolavano, o anche per scoprire il sogno dell'Ovest, in questo caso, nel caso dell'ei fu gruppo di Peter Green, già in preda alla sua follia, a quel tunnel infinito dal quale poi non ne uscirà, o se vogliamo sforzarci, ci uscirà, ma segnato per sempre (vi dice qualcosa un certo Syd Barret?), la svolta del successo, e quindi della bandiera stelle e strisce, arriverà in carne ed ossa con due nuovi componenti, uno di questi era proprio Lindsey Buckingham, californiano doc, individuato da un disperato e impanicato Mick Fleetwood, il quale riuscì a scorgere un certo talento nel chitarrista tutto folk e unplugged (o quasi), e l'altro membro sarà proprio la compagna di Buckingham, Stevie Nicks, collaboratrice, oltre che fidanzatina (ancora per poco). Mick dovette ricredersi a quel suo iniziale rifiuto della cantante subito dopo il successo di "Rhiannon" e "Landslide", nel loro "white album", il secondo omonimo della loro carriera, il primo della nuova vita, iniziata proprio in quel magico 1975. Due anni dopo la situazione è decisamente peggiore, già a partire dal '76 a dirla tutta.
I problemi di coppia che ci furono, e che ispirarono certe "voci di corridoio", rumours, per l'appunto, sono ben noti, ma vediamo di ricapitolarli. La magica coppia "California dreamin" stava passando un incubo, più che un sogno, almeno d'amore. Forse accade quando c'è lo scontro tra due personalità forti, forse quando si lavora troppo a lungo insieme, sta di fatto che questa spaccatura investì anche l'altra parte del gruppo, con John McVie, cofondatore, alle prese con i litigi e la separazione da Christine Perfect, o McVie, per qualche usanza scimmiesca di prendere il cognome del maritino. Anche l'alto batterista non era esente da problemi del genere. La lavorazione di "Rumours" fu più che travagliata, in preda all'assuefazione da droghe e alcol, lo si nota nel sali e scendi di volume e settaggi, che la Warner Records passò comunque come accettabili, probabilmente perché aveva fiducia di quei 5 lì ficcati in uno studio nei pressi di San Francisco. Così quello che ne uscì fuori sarà ben più che una raccolta di brani, ma un insieme di passioni sofferte e patetiche (nel senso etimologico del termine, ovviamente). Lindsey attacca con "Second Hand News", brano di riscatto e pieno di rabbia, nei confronti proprio di Stevie, che risponde pacatamente nella successiva traccia. "Women, they will come and they will go", canta con nonchalant, così che "Dreams" diventa il successo dell'album senza troppe difficoltà, ancora una volta la dea dei '70 colpisce, e in pieno. Se nel primo brano prevalevano le chitarre acustiche energizzanti, in quest'ultimo c'è una situazione molto più "ambient", con chitarre elettriche a fungere solo da back sound e contorno. Entrambe sorprendenti. Tutte queste 11 perle sono frecciatine da una parte o l'altra, si guardi, o meglio si ascolti "Go Your Own Way" con un Lindsey quasi irato, ma estremamente melodico, e quell'assolo finale di chitarra semplicemente perfetto, compatto, coerente. Un punto di riferimento, e la sintesi eccellente dell'Hi-Fi, del rock-pop californiano. Le 6 corde si fanno ancora acustiche, in "Never Go Back Again", con un messaggio di saggezza, mai tornare indietro, avere rimpianti. Lo stacco di accordi, la semplicità strumentale ma la complessità tecnica del suonare senza plettro, rendono questo affascinante. Entra in campo la Perfect con "Don't Stop", altro pezzo ben famoso, fu utilizzato anche in una campagna elettorale. Incoraggiamento e speranza, i temi chiave. Alti e bassi, come ci si poteva immaginare da un'opera così sudata, anche per il caldo nello studio di registrazione probabilmente, anche se questa sarà pubblicata solo in un freddo febbraio del 1977. "The Chain" è "Go Your Own Way" più arrabbiata, con una intro da paura, il duetto Lindsey/Stevie, e il basso imponente di John. L'unico pezzo firmato da tutti e cinque i membri, nonostante abbia preso ispirazione da un altro brano del duo Buckingham/Nicks, per l'appunto, pubblicato all'inizio del decennio. L'aria si rende meno tesa in pezzi come "I Don't Want to Know" e "You Make Loving Fun"; la prima è un acustico che sembra uscito da una band di teenagers del college, alquanto talentuosi, la seconda è un vero e proprio monumento della musica dei nuovi Fleetwood Mac, una "Say You Love Me" 2.0 (del precedente album). Nonostante il significato sia diverso, opposto addirittura, a livello concettuale e musicale i due brani sono simili, entrambi stupendi. L'amore, e i suoi problemi, è il main theme, il concept di uno degli album che vendette di più nella storia della musica, oltre 40 milioni di copie, e che rimase in vetta alle classifiche a lungo. Un equilibrio tra speranza e rabbia, caos e armonia, che si rispecchia anche nella stupenda e celeberrima copertina. Mick e Stevie posano sinuosamente, in una sottospecie di danza acrobatica (curioso come proprio questi due, dopo tutte le vicissitudini sentimentali, avranno una relazione ben discussa ). Lo sfondo è un giallo o beige chiarissimo, molto elegante, così come la scritta. Evidente è la continuazione con il lavoro di due anni prima, un'impostazione scenografica analoga. La prima volta che vidi lo scatto pensai che si dovesse trattare di una band francese, per quei caratteri così ondeggianti un po' da stile métro, o magari una band inizi anni 2000, per quel "Mac" che tanto mi ricordava l'era dei computer. È strano vero, ma forse anche per questa confusione iniziale l'impressione fu quella di un vero e proprio amore a primo ascolto. Ogni pezzo suonava alla perfezione, da quelli più ritmati, già citati, alle ballads più dolci e rilassanti, come "Songbird", di Christine, oppure "Oh Daddy", della stessa (da notare come la tastierista e autrice del gruppo ami titoli alquanto dubbi, come anche "Sugar Daddy" o "Honey Hi"). Mai era capitato in anni di ascolto musicale di avere un'impressione così grandiosa già dal primo momento, forse appare scontato, ma questa non può che essere una dedica, una standing ovation, all'album degli album, il più equilibrato e opportuno, con i suoi 11 capolavori, John, Mick, Christine, Lindsey e Stevie, a chiudere con la mistica, accattivante e sognante "Gold Dust Woman", segnano la storia. Punto.
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