La grandeur, gli arrangiamenti pomposi e le melodie ariose ed aperte sono state finora il marchio di fabbrica che ha permesso a Florence Welch di ritagliarsi un grande successo nel sempre più risicato mondo dell’alt rock di successo.
E’ da tempo che la bella artista britannica ci promette un disco più intimo, scarno e personale, ma i tentativi effettuati finora (nonostante un successo commerciale e critico sempre più crescente) non sono andati a segno. Florence (assieme ai suoi The Machine) ci riprova con questo nuovo “High As Hope”, quarto sigillo di una carriera che sembra inarrestabile, affidandosi ad un’unica produttrice invece che alla solita ammucchiata dietro il banco (si tratta Emilie Hanye, già al lavoro con Rolling Stones, Lana Del Rey ed Eminem) e scegliendo accuratamente i co-autori dei dieci brani che compongono l’opera (tra i quali spiccano Tobias Jess Jr. e Jamie XX dei The xx).
Ci è riuscita? Sì e no, diciamo che in alcuni episodi il giochetto riesce alla grande, come nel bellissimo crescendo dell’opener “June”, nell’incedere organico ed essenziale dei singoli “A Sky Full Of Song” e “Big God” e nella doppietta conclusiva “The End Of Love” e “No Choir”. Gli arrangiamenti si fanno più scarni, Florence ce la mette tutta nel dare un’anima ai brani con un’interpretazione davvero sontuosa e basta davvero poco (piano, archi, qualche fiato qua e là) perché i pezzi stiano ben in piedi sulle proprie gambe.
Altrove, invece, riaffiora il vizietto di strafare; non è sempre necessariamente un male, se ne viene fuori n grande singolo come la travolgente “Hunger” e la convincente doppietta “Grace” / “Patricia” (quest’ultima potenziale hit), ma altrove sembra quasi di veder costruire un’impalcatura claudicante solo per assecondare lo slancio della rossa cantautrice (“100 Years” è davvero troppo costruita, “South London Forever” non si capisce benissimo dove voglia andare a parare nonostante un paio di buone soluzioni ritmiche). I testi scavano profondamente nel personale dell’artista, andando a rievocare persino episodi di un’adolescenza sempre più lontana, e si sposano bene con la proposta musicale della band britannica.
Un buon disco, che consolida la posizione dei Florence + The Machine e li conferma come una solida realtà del genere. Un’eventuale crescita artistica, però, è ancora da rimandare a data da destinarsi.
Brano migliore: “Big God”
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