Ci sono libri fondamentali, che aprono la testa, cambiano il modo di vedere le cose, a volte danno speranza e a volte fanno paura. Per me che ho studiato legge e vivo col codice in mano uno di questi è "Il Processo" dell'immenso Kafka. Un altro libro basilare, straordinariamente premonitore, lo diede alle stampe Orwell nel 1948, e lo intitolò, giocando sulla data di pubblicazione, "1984".

E al libro di Orwell pensavo mentre guardavo annichilito questo film meraviglioso, ambientato proprio nel 1984, e chissà se è un caso. I fatti si svolgono nella Repubblica Democratica Tedesca, nella Berlino Est prima della caduta del muro. Qua il Grande Fratello non è un gioco a premi televisivo, ma una cosa un po' più seria, e si chiama Stasi (Ministero per la sicurezza dello Stato): sono i servizi segreti del Paese, con il compito di sorvegliare i propri cittadini, mica che a qualcuno venga in mente di saltare il muro o, sedotto da occidentali idee eversive, si permetta di diffonderle e propugnarle. La pellicola è spietata nel mostrare con quanta perizia l'occhio del Grande Fratello veda tutto, frughi in ogni angolo, entri nelle case ignare della gente. Siccome il film è recente e forse ancora in programmazione, e comunque è altamente probabile che venga riproposto nei cineforum, non ho intenzione di rivelarne la trama rovinando il piacere a chi avesse voglia di vederlo, cosa che consiglio a tutti. Mi limito a un inquadramento necessario per le considerazioni che voglio trarne.

Uno dei due protagonisti maschili, Gerd Wiesler (interpretato magistralmente da Ulrich Muhe), nome in codice HGW XX/7, è un agente della Stasi, spione grigio e burocratico, tassello oliato a puntino del mostruoso e perfetto ingranaggio statale. L'altro protagonista maschile, lo scrittore e regista teatrale di successo Georg Dreyman (Sebastian Koch), insieme alla compagna e attrice Christa-Maria Sieland (Martina Gedeck), sono invece gli spiati. Il fatto è che Dreyman in realtà non è un pericoloso sobillatore, ma un artista rispettoso della linea del partito, forse più per convenienza che per reale convinzione, e ha solo due peccati: un paio di amicizie imprudenti con altri artisti loro sì scomodi, e per questo costretti a non lavorare, e soprattutto una donna, Christa-Maria appunto, di cui si è invaghito un importante membro del partito, il ministro Hempf. Il quale mette in moto la mostruosa macchina nel tentativo di trovare qualunque cosa per rovinare lo scrittore e rubargli l'attrice. Incaricato delle indagini è appunto l'agente Wiesler. Pian piano, in seguito ad eventi a cui non è estraneo lo stesso Wiesler, Dreyman rivede la propria posizione sul regime, e comincia a fornire utili elementi da inserire nei rapporti di Wiesler per l'indagine nei suoi confronti. Ma chi ascolta Beethoven non può fare la Rivoluzione, diceva Stalin, e finisce proprio che Wiesler, con le sue cuffie da spione, chiuso nello scantinato, ascolti Beethoven, e pianga. Ed ecco che il mostruoso ingranaggio comincia a incepparsi, qualcosa nella macchina non gira più come dovrebbe, i rapporti di Wiesler sono sempre più reticenti...

Il film, oscar 2006 come miglior film straniero, è bellissimo. Agghiacciante la descrizione dell'altissimo grado di controllo della Stasi sui propri cittadini, dei metodi per sorvegliarli e impaurirli, spingerli a tradirsi gli uni con gli altri e diventare dei "collaboratori"; la cosa che più inquieta è l'assoluta mancanza di qualunque forma, praticata o anche solo minacciata, di violenza fisica: gli interrogatori, le minacce, perfino la carcerazione "esortativa", avvengono in un clima quasi surreale, la violenza, le pressioni cui sono sottoposti gli interrogati è tutta psicologica e sottesa, con un'impressionante scimmiottamento del rispetto delle regole e dei diritti civili. Lo squallore della vita media sotto il regime è dipinto con grande maestria, attraverso l'uso perfetto della fotografia: la pellicola si accende di colori vivi solo alla fine, dopo la caduta del muro, mentre prima tutto è opaco, spento, come ricoperto da uno strato di grigio. La descrizione dei ferali effetti del regime è eccellente, e il film invita a terribili considerazioni sul controllo dell'autorità sugli uomini, considerazioni quanto mai attuali anche per noi, che pur non vivendo in un regime totalitario ci dibattiamo tra le intercettazioni, controllati da computers che si accendono quando sentono parole come bomba o Islam, schedati quando usiamo la carta di credito o il bancomat, ripresi da milioni di telecamere agli angoli di strada. E neanche ci chiediamo più quale sia il limite, quanto la sicurezza giustifichi in realtà mezzi di controllo così invasivi, da una parte terrorizzati da informazioni parziali, manipolate e volutamente allarmistiche, dall'altra anestetizzati dal gossip, dal calcio, dalle finte risse, dagli strepiti e dal fumo senza arrosto che tracimano dai mass media, e pure questo altro non è che un sofisticato mezzo di controllo. Resta da chiedersi cosa accada al grigio burocrate, cosa lo spinga a non attenersi più ai rigidi protocolli, a non denunciare Dreyman, appurato che sta ormai diventando un nemico del regime.

Il film lascia libera l'interpretazione dello spettatore, evitando che Dreyman e Wiesler si incontrino per una finale spiegazione. È stato il salvifico incontro con l'Arte, che ha aperto gli occhi dell'uomo di Stato? O il rendersi conto di non servire la causa, ma l'abuso di potere di un superiore che agisce per propri interessi personali? Probabilmente entrambe le cose. Ma secondo me c'entra pure il tentativo di non fermare il piacere di guardare, di spiare, fino ad arrivare in realtà a "vivere", con incredibile empatia, le vite degli altri, di questi altri che, al contrario di lui, ce l'hanno una vita, piena di passione, di forza, di coraggio, di cose da dire e da fare (che sia lo stesso sottile meccanismo per cui un sacco di gente sta a guardare se alla fine Guendalina gliela dà a Milo?).

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