Quella maledettissima divinità chiamata mainstream ha compiuto, impietosa, un'altra vittima.

Il mercato discografico italiano è uno dei più orripilanti che si siano mai visti negli ultimi decenni. C'è che se non hai un papà, una mamma o entrambi i genitori famosi, se non hai ricevuto le giuste raccomandazioni, se non ti adegui al nefasto giochino del "sole, cuore, amore", se invece di guardare la realtà con un velo nebbioso davanti al cristallino scrolli rabbioso la testa e scruti truce il mondo, se decidi di sputtanare tutti i disgustosi moralismi che pullulano irrefrenabili nello Stivale, se non riesci a tenere a freno la lingua... non sfondi. Sembra quasi fatto apposta, un maledetto giocoforza che ti impedisce di puntare in alto, che ti tarpa le ali e ti zittisce imperioso, costringendoti a scomparire nel nulla, con uno strascico infinito di rimpianti e di vergogna repressa.

I Fluxus sono uno dei gruppi raffigurati.

Chi ha mai sentito parlare dei Fluxus? Nessuno: nati come quartetto nel 1991 a Torino dalle ceneri dei Negazione, per iniziativa del cantante e chitarrista Franz Goria, sono stati confinati da subito nella più remota scena indipendente italiana. Quando i governi mandavano in rovina l'Italia, con scelte tutt'altro che oculate e ragionevoli, loro c'erano. E chi li ha sentiti? Nessuno. Quando impazzavano sui telegiornali le notizie di cronaca nera, e si aveva un gran daffare a puntare il dito, con fare melodrammatico, contro l'operato del sistema giudiziario, loro c'erano. Meno melodrammatici, più incisivi e determinati. E chi li ha sentiti? Nessuno. Quando il disagio delle periferie annegava nel proprio grigiore di fabbriche in disuso e triste vigogna, loro c'erano. E chi li ha sentiti? Nessuno. I loro testi impegnati, a metà fra il nichilismo punk e la denuncia poetica, mai banali, mai scontati, con un retrogusto amaro, sono passati, sempre e comunque, quasi del tutto inosservati.

Il tutto assume toni ancora più chiassosi, quasi scandalistici, se si volge lo sguardo alla componente sonora del gruppo piemontese. Sin dal loro esordio (lo sconosciuto "Vita In Un Pacifico Mondo Nuovo" del 1994, ora introvabile) il quartetto pedemontano ha costruito, passo dopo passo, grazie all'apporto di due chitarre elettriche e due bassi, un maestoso muro acustico, possente e roboante, veleggiante fra ritmiche hardcore ed inserimenti noise/punk, il tutto condito da uno screming sostenuto, ma mai invasivo o inopportuno. Una delle cose migliori che l'Italia abbia avuto mai l'occasione di sentire, insomma. Confinata in un angolo buio e seminascosto.

"Pura Lana Vergine", seguito ideale del devastante "Non Esistere" (proposto nel 1996), esce nel 1998, ed è forse l'opera più bella che la band abbia mai compiuto, durante tutto il suo percorso artistico, sofferto e travagliato. Ora più che mai, le liriche raggiungono picchi di sconfinata intelligenza e sarcasmo al vetriolo, contro una società matrigna che ha come unico scopo il prenderci per il culo tutti, senza distinzione, con una nonchalance che sembra, talvolta, quasi impossibile da nascondere. I Fluxus non cercano certamente le mezze misure, non bramano alla statica ineluttabilità del timbro sonoro, anche a costo di provocare nell'ascoltatore fastidiosi acufeni.Lo spazio e il tempo sono due componenti secondarie per i Nostri: i pezzi sono sparati in successione, uno dietro l'altro, come in una spirale infernale che più cerchi di evitare più ti trascina giù, nel tremendo baratro della riflessione e dei perchè.

C'è l'istinto animalesco di "Uomo Ghignante" ("Agisci come sai, muoviti come sai, difenditi dal rogo del mondo"), che contravviene in modo palese a quelle che sono le regole della società per uscire allo scoperto, digrignando i denti, mandando affanculo l'aereo della negoziazione, mentre un plettro si muove ipnotico a pizzicare una corda di ipocrisia. C'è la bordata epilettica di "Senza Protezione", barbara distruttrice noise che ripiega più volte su sè stessa in un vizioso circuito punk, mentre il doppio pedale si insinua beffardo a scandagliare il faticoso percorso di fuga ("Ho i muscoli contratti dal freddo, lento movimento/ Di ore, di giorni grigi, di cielo di cemento/ Di ore, di giorni, istanti, frammenti") da coloro che si definiscono presuntuosamente "politici".

Ci sono i controtempi della -censuratissima, nell'ambiente di MTV- "Lacrime Di Sangue", una sprangata hardcore di cinicità efferata, che gioca a fare l'ignobile moralista (riuscendoci straordinariamente bene) con coloro che si preoccupano, più che delle guerre o delle malattie, del prestigio e della nobiltà dell'ambiente clericale ("Spiegami il mistero del sangue che si scioglie/ Santa emorragia, piena di grazia!"). Ma c'è anche l'agghiacciante "Giro Di Vite", un veloce, eretico affresco di un'ansia che serpeggia fra le vittime del consumismo, sottoposte ad un potere indefinito ed immaginifico, senza potersi opporre o ribellare ("Il tempo contiene la nostra illusione/ Non ho che questo da ricordare/ Non è il motore delle mie paure/ Non riesco a restare in questa piatta e noiosa geometria vitale/ Fatta di cielo che ingombra/ Lo spazio della sua follia").

"Le Cose Che Non Cambiano Mai Poi Cambiano In Un Minimo Limite Di Tempo" sentenziavano i Fluxus, quasi dieci anni fa. Ed è una filosofia che, se a quel tempo appariva pessimistica, ora appare solamente, dramamticamente realista: il thrash metal che furoreggia durante tutto il brano ricorda molto da vicino il lavoro degli Slayer -Goria in alcuni punti sembra un cugino cattivo di Tom Araya-, il testo è percorso da un brivido di ferocia che ascende velocemente in un climax di disperazione.

I Fluxus non si limitano a descrivere la realtà odierna: gettano uno sguardo al passato, tra ombre e luci di uno Stato sempre parziale e ingiusto.

"Nella scuola vecchia ci davano i voti e c'erano bambini abbastanza... poveri, nel senso... figli di operai che non guadagnavano molto, e non potevano essere proprio... come dire... figli di ricchi... come Agnelli eccetera. E c'erano lì, i bambini più cattivi, quelli che erano nella fila degli asini, che erano figli degli operai. Invece i più bravi erano figli tutti di persone impiegate, che prendevano duecentocinquantamila lire al mese, no... e a noi questo non è sembrato giusto e per questo abbiamo cambiato comportamento e tipo di lavoro vecchio. Infatti noi adesso non diamo più voti... cioè, il maestro non ci dà più voti, le pagelle sono tutte uguali... per noi, è come buttarle via le pagelle... nel nostro tipo di scuola non c'è nè ultimi nè primi, andiamo avanti tutti insieme".

Non bastava la Seconda Guerra Mondiale ad aver fatto inorridire il mondo sulla piaga della disparità razziale. Fra gli anni '60 e '70, a Torino -e nel Nord Italia in generale- si attuava implacabile la divisione in classi sociali, la disuguaglianza fra operai, manovali, ed impiegati, direttori, privilegiando ovviamente i più abbienti. I Fluxus testimoniano freddamente questo inspiegabile comportamento con le testimonianze dei diretti interessati, i bambini dei diversi lavoratori, sbiadito ricordo di alcune registrazioni di archivio, con le loro voci sottili, che stridono in maniera incredibile con il contenuto dei messaggi stessi. Il titolo è beffardo: "Classe", che si può riferire sia alla classe dei bambini che, appunto, ai ceti sociali. Ed è angoscioso sentire la voce cristallina, attraversata da un'atmosfera di sconfitta, di un bambino, che afferma con timido candore: "Mio papà va a fadigare nelle macchine...", mentre la chitarra di Luca Pastore esplode con violenza impressionante, accesa, più che dalla rabbia, dalla pesante scintilla dell'amarezza e dall'inspiegabile tormento del dubbio. E la sensazione finale è quella di uno shock irreprensibile ed inevitabile.

Ma non è certo finita qui: il noise dissonante e disillusionista di "In Un Istante", breve sfuriata armata di artigli ferrei e lancinanti, si mescola con il suo completamento, la sarcastica "Felici E Contenti", un proiettile hardcore punk che affonda, con un botto rimbombante, in un immenso oceano di lacrime amare, di rimpianto, mentre gli occhi si aprono per la prima volta e scorgono con sgomento la verità ("Quante figure che affollano la strada/ I manifesti e le parole che ci stanno a guardare/ Come le mosche nel miele affoghiamo/ Felici e contenti mangiamo e restiamo seduti/ Davanti alle nostre emozioni/ Che ci hanno rubato togliendoci il fiato/ Dicendoci ancora una volta/ Che è stato soltanto un errore/ Che tutto è cambiato").

Ed arriva l'incazzatura. Bruciante, cocente, perenne.

Non si capisce perchè (DJ) Francesco, con il suo uncino che non cade più e le sue trombate gossippare, sia in cima alle classifiche: mentre loro, i Fluxus, che denunciano l'innegabile strapotere dei potenti, siano in stand-by da quasi sei anni (ultimo album, l'omonimo "Fluxus" del 2002) senza che nessuno gli abbia prestato un orecchio, un ascolto, un minuto di tempo.

Siamo davvero sicuri che è questa l'Italia che vogliamo?

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