"Allora, ci sono un architetto, un organizzatore di eventi, un regista di documentari e un fotografo che vivono a Santiago del Cile, e decidono di partire per il cosmo usando come propellente le ritmiche motorik di fabbricazione tedesca (marca NEU! Ovviamente)."
Sembra una barzelletta, e invece i Föllakzoid sono proprio i quattro figuri descritti sopra, ultima scoperta in fatto di etnoturismo musicale della Sacred Bones di NY. Anzi, non paghi, i newyorchesi hanno reclutato (boh, sembra assurdo, tipo un’offerta del supermercato) anche un altro gruppo di Santiago, gli Holydrug Couple, versione latina dei Tame Impala.
Se ne parlava mesi fa recensendo i Goat, di come oramai le poche novità, o meglio “curiosità”, del mercato musicale odierno, provengano spesso da paesi fuori dal consueto asse UK-USA. Il che è decisamente un bene, visto che la produzione musicale al di fuori del suddetto asse è sempre esistita, ma ora è di decisamente più facile reperibilità. Basti pensare a quanto poco fosse conosciuta la musica tedesca (terzo mercato mondiale della musica dopo USA e UK, mica il Benin) in campo internazionale, fino a 20 anni fa.
Ovvio che l’altro lato della medaglia di questo allargamento geografico, sembri a volte subdolamente “cercato” e un po' paraculo, ossia un pensiero del tipo “vende sicuro di più un disco kraut cileno, che un disco garage californiano”. Fortuna vuole che non sia questo il caso.
I quattro cileni mostrano di maneggiare più che bene ritmiche robotiche, tastierame vintage pieno di effetti blob spaziali, linee di basso mantriche e chitarre in delay perenne, oltre che un biascicare poco decifrabile che fa molto Wooden Shjips/Moon Duo. E tracce come “9” ne sono l’esempio perfetto.
Se si fermassero qui i meriti, sarei già passato oltre. Invece i Follakzoid, riescono, non si sa bene come, a rendere meno freddo il tutto. Se non mi venisse da ridere solo a pensarlo, si potrebbe definirli “kraut-latino”, ma non vado oltre, perché mi sto già sputando da solo in faccia. Però è la definizione, purtroppo, più vicina a un brano come “Rio”, meccanico, sì, con la ritmica che gira in cerchio, ok, ma con un cuore caldo e pulsante.
E poi piazzano alla fine dei 5 brani, i 15 minuti di “Pulsar” che sembrano un rave party fra Orione e Saturno, mentre folate di synth e scudisciate della sei corde provano a rianimarci dal collasso encefalico. Pezzo geniale, punto.
Navigatori del cosmo interiore avvertiti, prossima fermata Santiago del Cile.
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