I Folkearth potrebbero essere considerati come una “all-star band” davvero promettente ma inusuale, caratterizzata da una formazione alquanto instabile composta da circa 30 membri provenienti da nazioni e gruppi musicali diversi che offrono il loro contributo in maniera particolare; infatti ogni canzone nasce da una singola persona, o addirittura band (come nel caso dei Forefather), e successivamente viene proposta anche agli altri per eventuale modifiche ed orchestrazioni varie.
Il più grande rischio che comporta scelte del genere è, ovviamente, quello di creare un album che sa più di “compilation” piuttosto che di cd vero e proprio in quanto ogni band partecipante al progetto ha una sua identità ben riconoscibile. Questo nel nostro caso è in parte riscontrabile ma non influisce nella buona riuscita di questo ottimo cd, che però forse pecca di troppa spavalderia e sicurezza nei propri mezzi.
Con questo non voglio assolutamente screditare "By the sword of my father" però vorrei solo esprimere una certa delusione in quanto data la qualità dei pezzi, bastava un minimo di cura e autocritica per renderlo un autentico capolavoro.
Mi spiego meglio. La durata del cd si rivela fin troppo estesa con le sue 16 tracce e 72 minuti di lunghezza dal momento in cui notiamo la presenza di un’intro davvero lunga e banale, un outro inutile (che da sole durano più di 8 minuti..) e vari riempitivi tra cui l’insignificante “Elves” e la folk-rock song “Tribute to Viking Gods” che in un album dei Flogging Molly sarebbe perfetta, ma qui invece c’entra davvero poco.
Discorso diverso invece va fatto per la cover dei Falkenback “Heathenpride”, “Wisdom of Wolves” e “Sailing a Viking”. La prima, sempre gradita, si trova in una posizione in scaletta alquanto insolita, o meglio sembra quasi posizionata apposta per dividere l’album vero e proprio dalle altre canzoncine messe lì chissà perché. La seconda invece non è affatto male, se non fosse che la stessa melodia portante la troviamo nella canzone che sarà l’opener del disco successivo (segno che probabilmente questa versione non ha convinto granchè). “Sailing a Viking” infine è una strumentale che come traccia numero 14 è davvero insipida, ma secondo me come intro del cd sarebbe stata molto più convincente.
È davvero un peccato perché tutte le altre canzoni sono eccezionali, a partire da “The Lady's Gift” che sembra uscire da un album dei già citati Forefather, passando per la title track che tra flauti, cori di vichingoni barbuti e scream luciferini riesce a provocare più di un brivido lungo la schiena. Altre canzoni degne di nota sono “Naglfar sets sail”, la fantastica “Skaldic Art”, l’incalzante “Instrumental” e la drammatica e malinconica “Return to Walehalle”.
I capolavori non mancano, quindi, ma il mio giudizio è che i brani presenti in questo cd sono sì magnifici, ma decisamente troppi! Una maggior attenzione in fase di definizione della scaletta e magari l’esclusione di qualche pezzo inutile avrebbe fatto di questo disco una pietra miliare.
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