"..Don't tell me that I'm all alone, I choose the path I take
Choose the path I take, chose to stay awake.."
Queste poche parole, contenute in uno dei brani di questo gioiello dimenticato e più volte coperto di merda, rappresentano in pieno lo spirito di "Green", quarto e ultimo full length targato Forbidden. Da una parte c'è la disillusione e la rabbia che un uomo può generare dentro di sè, quella che fa piangere e sanguinare, la solitudine piuttosto che il vile piegarsi alle regole del sistema, a questo mondo fatto di niente, all'ipocrisia di un bell'abito e una faccia da cazzo. D'altre parte il rifiuto di seguire sentieri già battuti con lavori di elevato spessore quali gli amatissimi "Forbidden Evil" e "Twisted Into Form", e il contestato "Distortion", preferendo rielaborare le diverse influenze e la maturità acquisite, senza le quali nessuna band avrebbe ragion d'esistere, con coraggio, rischiando il flop di vendite (come purtroppo è stato, fattore che ha contribuito allo split della band) ed un deciso rifiuto da parte del pubblico. Poi, uscire con un disco del genere nel '96 ha fatto il resto; molti sanno che il Thrash metal in quegli anni viveva una profonda crisi... ma alcuni tra i più attenti sanno anche che in realtà è quello che ci vogliono far credere. Anche se ci dichiaramo amanti del metallo e della musica di nicchia, spesso e volentieri cadiamo stupidamente vittime del mainstream e del "pensiero dominante" (rimando ai versi in apertura di recensione).
L'album, senza mezzi termini, è un capolavoro, ripetuti ascolti (tanti vi assicuro) non scalfiscono minimamente l'impatto e la carica emotiva dei brani. L'inizio è fuorviante quanto azzeccato, un brano lento e avvolgente, soprattutto nelle melodie vocali di un ispiratissimo Russ Anderson, si ha secondo per secondo l'impressione che stia per esplodere, ed invece come un mantra, striscia fino ai secondi finali; a tratti si intravede quasi un brano post-grunge (quasi ispirati dai migliori Alice In Chains) riletto alla Forbidden. L'inizio vero e prioprio è dopo i 2 minuti e mezzo della prima traccia, si parte con una serie di pezzi travolgenti dove è la caoticità ritmica a dominare. Qui abbiamo un approccio già moderno, tipico del post-thrash; non più tempi puramente Speed, ma una serie continua di momenti piu lenti e cambi di pattern devastanti alternati nevroticamente ad altri più sostenuti e complessi. Il drumming di Steven Jacobs è praticamente perfetto, molto vario e possente, sostenuto dall'ottimo Matt Camacho al basso. Non c'è bisogno di ribadire l'alto bagaglio tecnico di questi musicisti, così come elogiare le qualità dei chitarristi Craig Locicero (il quale prese parte al tour europeo al fianco del compianto Schuldiner a supporto dell'uscita di "Individual Thought Patterns" dei Death) e Tim Calvert (il quale ha militato nei Nevermore nel periodo di "Dreaming Neon Black", band che di certo non nasconde l'importanza che hanno avuto i Forbidden, soprattutto con "Distortion", nella maturazione del loro sound). Il riffing è caotico, a tratti dissonante, e va ad evidenziare una vasta gamma di influenze; si va dai Voivod (anche qui!... qualcosa vorrà dire!) ai Pantera, all'hardcore più duro, senza dimenticare ciò che loro hanno rappresentato con le uscite di fine anni '80. Il tutto condito con assoli costruiti ad hoc, meno presenti che sui precedenti lavori per via del mood del tutto nuovo di "Green", ma più destabilizzanti e disturbati, ed inoltre, rumori, campionamenti, spoken vocals e scratch che vanno a completare questo dipinto astratto di degrado metropolitano. Il tutto è ben congeniato, come la produzione, potente, sporca quanto basta e naturalmente dai suoni più compressi che in passato. Non dimentico di certo Anderson che qui sfoggia la migliore prestazione di sempre, davvero ispirato, estremamente vario ed interpretativo, eccellente sia nel pulito che nelle parti più ruvide e aggressive, scrollandosi di dosso quei nomi i quali gli addossavano come termine di paragone sui primi lavori (Araya e Halford su tutti). Ciò che ho sempre amato di questo cantante è la capacità di costruire ottime parti vocali che rimangono addosso senza annoiare, anche dopo ripetuti ascolti; a differenza di un Warrell Dane, che pur riconoscendone l'assoluta grandezza e unicità (io adoro la sua voce e i Nevermore), non si lascia sempre ascoltare, in alcuni momenti (almeno per quanto mi riguarda) pare diventare pedante e noioso.
In conclusione, questo è l'album più ostico e complesso dei Forbidden, non tanto per un lavoro strumentale eccessivamente intricato, ma per l'approccio più caotico e deviato, ed è allo stesso tempo il disco più maturo e personale. Un lavoro rabbioso, devastante, intelligente e ispirato, che ha precorso i tempi e che purtroppo non è stato preso molto in considerazione, visto le porcate che ci regala oggi il metal-core. Il mio consiglio è quello di riscoprire questa perla post-thrash, anche per chi già conosce ed ha accantonato frettolosamente "Green", in quanto ora ha la possibilità di concedergli un ascolto con orecchio diverso.
P.S. Ad oggi, la band è di nuovo attiva con Glen Alvelais (già in "Forbidden Evil") al posto di Calvert e il grande Gene Hoglan alla batteria. Non conosco i piani della band a livello discografico, ma se avremo la fortuna di sentire del nuovo materiale, spero ripartano dalle coordinate di questo splendido "Green".
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