Le nuvole grigie hanno ormai preso il completo dominio del cielo, il selciato nero sembra riflettere il buio del firmamento, sembra riflettere il buio dell'animo. Pochi passi e la Morava è sotto di me, solo il Ponte Carlo mi separa dalle fluenti acque del fiume. Lo sciabordio dell'acqua contro le pareti del ponte è soltanto leggermente percepibile, coperto dal caciare della folla, coperto dalla finta allegria degli artisti di strada, dalle risate delle ragazze che camminano spensierate, dalle scolaresche in gita, dal mio compagno di classe che mi chiama e al quale io non voglio prestare attenzione.

L'acqua è sotto di me, il suo flusso è un qualcosa di inarrestabile, misteriosamente invincibile, l'acqua vince sempre, il flusso dell'acqua vince sempre. Sembra quasi di entrarci dentro, in quel maledetto fiume, e il flusso dell’acqua mi fa prendere contatto con un altro flusso, quello della vita: un fluire di energia che modifica continuamente e completamente la mia esistenza e che mette in luce le contraddizioni in me, mette in luce come la mia immagine sia cambiata negli anni e come essa cambi tuttora, in questo preciso istante, non solo ai miei occhi, ma anche agli occhi degli altri. Tutto ciò avviene continuamente, inesorabilmente e non può che suscitare un senso di penoso smarrimento e amarezza.

Il flusso da me descritto l'ho ritrovato quel pomeriggio a Praga con in sottofondo un cd: "Six Waves Of Woe". Perché quell'album è il flusso, i tempi dettati dalla batteria cambiano continuamente, i riffs di chitarra tessono tele ora lente e decadenti e poi potenti e maestose. Ma facciamo prima un po' di storia: i Forest Of Shadows sono una one man band svedese nata nel 1997 e dedita, fino a pochi mesi fa almeno, ad un death doom metal di, passatemi il termine, ottimissima fattura.

Con questo album uscito alla fine dell'anno passato, Niclas Frohagen (questo il nome della persona che "sta dietro" al progetto), sembra voler cambiare leggermente e al contempo decisamente rotta. Questo perché, mentre nei due principali lavori precedenti usciti rispettivamente nel 2001 e nel 2004 il sound era orientato su sonorità tipicamente death doom metal: con tempi molto cadenzati, riffs di chitarra pesanti e voce growl che si alternava ad una voce pulita e sofferente; in questo Six Waves Of Woe le cose cambiano. Il genere di riferimento rimane senza dubbio il doom, ma i riffs si modificano, ciò che era solo percepibile in "Departure", anche a causa della cattiva registrazione che dava comunque un taglio molto minimale al sound, qui prende finalmente forma e i riffs tipici del death doom lasciano posto a riffs che ricordano molto da vicino quelli tipici dello stoner.

L'album è composto da sei tracce, per una durata totale di quarantasette minuti. La traccia a cui spetta il compito di aprire le danze è "Submission", la canzone comincia con un dolce arpeggio di chitarra adagiato su leggerissimi colpi sulle pelli, dolci gocce di tastiera cadono ogni qual volta la mano di Frohagen incomincia un arpeggio. E poi interviene la chitarra elettrica, un'implosione e in seguito nulla sarà come prima: il flusso incomincerà, le chitarre dipingeranno muri impenetrabili, la voce lamentosa e leggermente nasale del cantante accarezzerà le orecchie, ben presto si verrà a creare quel gioco di pieni e vuoti che, dandosi il cambio, creeranno una magnifica e triste staffetta. La canzone parla di un uomo che ormai ha perso qualsiasi illusione e guarda quell'orizzonte privo di senso che è la realtà.  Nella traccia successiva, "Selfdestructive" ci viene sbandierato in faccia il dolore dello smarrimento, il dolore per non possedere più una guida, un punto di riferimento, Lei. E il dolore non può che sfociare in rabbia, e la rabbia non può che esplodere in un growl cieco profondo, rotondo e terrificante in uno dei momenti più emotivi, maestosi e ricchi di pathos del disco. Da qui in poi, non c'è altro da fare che lasciarsi trasportare dal flusso, in posti sempre nuovi, sempre grigi, rive brulle e alberi secchi che salutano il nostro corpo sperduto in mezzo al fiume della vita. Le altre tracce proseguono in questo modo, tra cadenzati riffs di chitarra, dolci contorni di tastiera e una voce a volte dolce e lamentosa ed altre, nei momenti più maestosi, rabbiosa e dolorante.

E verrebbe quasi voglia di annichilire il mondo, di distruggerlo con un gesto, di ingoiarlo per poi defecarlo come il rifiuto che è, da qual che parte del nulla. Amarezza genera altra amarezza, impossibile non tornare indietro con i ricordi, a quando si credeva ancora in un futuro stabile, con una propria famiglia, un proprio lavoro: tutto distrutto dalla realtà. E intanto il fiume continua a scorrere, invincibilmente e tirrannico.

Fuga, ecco cosa ci racconta Niclas in questo lavoro, una fuga entro di sé per sfuggire da un mondo che fa troppa paura per essere affrontato, un mondo che poteva essere di quell'uomo che ora, non può far altro che gridare e maledirsi per le occasioni buttate via.

E così l'album finisce e con esso finisce anche la percezione del fluire della vita; il cielo era grigio sopra Praga e il cuore era grigio dentro di me, un altro pomeriggio buttato, pensai, un altro pomeriggio buttato a lambiccarmi il cervello mentre l'avrei dovuto passare in allegria come tutti gli alunni in gita.

Pensato ciò, mi incamminai verso il castello.

Tirando le somme sul disco, beh, non posso che consigliarne l'acquisto, soprattutto agli amanti (ahimé pochi) del doom. Acquisterete un'opera dal grandissimo impatto emotivo, da vivere dalla prima all'ultima nota per finire l'ascolto stremati ma, al contempo, soddisfatti.

Forse mai come in questo caso mi sono ritrovato in difficoltà ad elencare i difetti; l'unica pecca che gli si può appuntare è insita nell'ultima traccia, bella ma forse un po' troppo lunga e ripetitiva, ma ripeto, sono dettagli tra l'altro molto, molto soggettivi.

E che la percezione del fluire abbia inizio...

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