De Gregori è sempre stato un artista al di sopra di molte cose, estraneo alle mode ma pure lontano da chi trova nel respingerle una ragione di vita. Ovvero, si è sempre preoccupato molto più della creazione artistica in quanto tale che del contorno. E’ anche stato abbastanza prodigo di sorprese, partendo dal ’ 77 (quando, in seguito alla famosa contestazione subita al Palalido, si ritirò dal mestiere di cantante per tornare un anno dopo con un disco bellissimo), passando per quando disse che non avrebbe più cantato i vecchi successi, arrivando a quando, pochi anni fa, disse che le sue uscite discografiche sarebbero andate rarefacendosi negli anni. E invece un anno dopo Pezzi – il disco che doveva sancire la sua definitiva virata verso una forma-canzone rock che, al di sopra di ogni opinione, è obiettivamente inferiore ai bagliori del suo cantautorato intimista e visionario – ritorna con questo Calypsos, disco “sognante e sognato” , nato e registrato in fretta nella sua casa in Umbria. E in questo caso le sorprese sono addirittura due: la prima, come già detto, è il disco stesso, totalmente inatteso; la seconda sono le canzoni, quasi tutte orientate verso le atmosfere raccolte dei suoi primi album.

Il disco si presenta con una copertina bianca e minimale, omaggio agli ultimi dischi di Battisti in collaborazione con Panella, anche se come dice lui “in questo disco non c’ è quel tipo di cesura del passato che Battisti intendeva rappresentare con le copertine bianche” . E non è un capolavoro, come da molte voci si sta sentendo: è un disco molto buono, abbastanza melodico e meno commerciale di Pezzi. Ma veniamo alle canzoni. "Cardiologia", il singolo estratto, è un tuffo al cuore: poche volte De Gregori ha fallito quando si è presentato piano-voce, e non lo fa nemmeno ora. Melodia ariosa – con leggerissimi richiami a "Il cuoco di Salò" nel ritornello e a "Bufalo Bill" in un cambio di tonalità – e testo che parla dell’ amore come un’ entità a sé, espressiva e sacra (“Che raccoglie conchiglie / dopo la mareggiata / che il cielo è ancora scuro / ma la notte è passata / e macina la sabbia / dentro ai mulini a vento / e che non ha mai fretta / e che non ha mai tempo” ). Davvero una grande canzone. La casa è quasi una filastrocca ma ha una melodia non banale; parla della caducità, dell’ineluttabile fine che accompagna tutte le cose prima di intervenire e farle crollare. Splendido il testo (“costruisco questa casa / senza inizio e senza fine / come il sole a mezzogiorno / quando incendia le colline” ).

L’angelo, dichiarato riempitivo composto perché “otto canzoni erano troppo poche” , è una canzone strana, un calypso sull’angelo della morte che arriva senza minacce, offrendo addirittura da bere. In onda è il capolavoro del disco: melodia liquida e sospesa che ricorda quella della sua Atlantide (del 1976), è una canzone dai significati incerti è nata di getto, “ come se fosse stata scritta da qualcun altro che me l’ ha regalata” . La voce di Francesco qui commuove, rischiando e vincendo in toni acuti che non comparivano nei suoi dischi dal primo album. Per le strade di Roma, La linea della vita e Tre stelle sono i punti deboli di quest’ album. La prima ha uno sguardo sulla capitale non banale, ma la musica non spicca mai il volo, sebbene sia piacevole il suono del mini-moog, mai usato finora dal cantautore. La seconda è ha un ritmo più sostenuto e scanzonato rispetto alle altre, composta in terzine e appesantita da cori femminili. La terza ha l’ attenuante di essere un evidente divertissiment, un country spensierato che parla di un amore alla Minnie e Topolino, vissuto in un albergo a tre stelle, e che vuole alleggerire lo sguardo sull’ amore, trattato certo in maniera diversa negli altri brani. Mayday potrebbe essere un outtake di Pezzi, un rock piacevole e parzialmente debitore dei Dire Straits. L’amore comunque sarà con tutta probabilità il secondo singolo estratto, è una canzone di devozione verso l’ amore accompagnata da una melodia molto ispirata, specialmente nel ritornello, geniale trovata letteraria (“regina del tempo / della sabbia e del vetro / della fine di tutti i numeri / e dalla fine dell’ alfabeto” ).

Davvero una bella sorpresa questo disco di De Gregori, al quale non si può chiedere di eguagliare i miracoli degli esordi ma che ha dimostrato di poter ancora comporre melodie ispirate e originali, perfetto accompagnamento per derive evocative e immagini nitide. Voto: 7, 5

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Altre recensioni

Di  Francesco Genovese1

 Queste stupende nove canzoni a mio avviso sono delle meravigliose poesie musicate.

 Francesco De Gregori è il cantautore per antonomasia, e questo meraviglioso album ne è la riconferma.


Di  primiballi

 Ormai fa quello che vuole. E fa bene.

 Questo è il disco di un uomo ed un artista sereno. Che non ha più nulla da dimostrare e lo sa benissimo.


Di  DeAnonymous

 Francesco il Degregori è sempre stato uno che imita Bob Dylan, ma non è Bob.

 Imitare così e passare tutta la vita a fare la tribute man del Dylan, ma questo Degringori non ce l'ha una dignità?