1996. De Gregori affida a Corrado Rustici, chitarrista con alle spalle una consistente esperienza musicale negli States, la produzione del nuovo album.
L'intenzione è evidente. Tentare un "ammodernamento" nella proposta che sia però rispettosa della natura intimista della poetica. Non facile ovviamente, anche perchè non vi sono veri precedenti in questo senso. Infatti, pur introducendo nel corso della propria carriera elementi musicali nuovi, l'impianto di fondo nella produzione Degregoriana era rimasto fino a quel punto sostanzialmente acustico.
Alla fine i risultati sono controversi ma, almeno a mio parere, Rustici vince la sfida.
Fin dall'attacco ("Compagni di viaggio") si sente una sonorità piena, leggermente opaca e, mi si passi il termine, "tecnologica". Anche il brano (molto bello), sembra allinearsi alla volontà di una svolta espressiva e racconta una situazione di coppia, oscillante tra veglia e sonno, un po' allucinata ma decisamente più lineare di tante altre descrizioni del nostro.
Le due canzoni seguenti non presentano particolari attrattive (sempre dotate però di una veste sonora omogenea all'impianto generale), anche se in particolare il brano "Tutto hanno un cuore" dispone di alcuni frangenti poetici notevoli. Con "Un guanto", ispirato ad una serie di litografie di Max Klinger, il livello sale. Su un arpeggio di sapore vagamente country affidato allo stesso Francesco, si dipana la saga di un guanto perduto e ritrovato in una serie di quadri appaiati, che si sublimano in una immagine finale trascendente dove a consacrare l'avventura compaiono Psiche e Cupido. Un po' ridondante, forse, ma sicuramente riuscito.
Un po' di maniera "Jazz", soprattutto nell'arrangiamento, ma fate alla caso alla melodia. Molto bella. Ed ecco il single radiofonico prescelto al tempo dell'uscita. "L'Agnello di Dio". Trovo straordinario l'attacco di questo brano. Rubando una battuta alla normale scansione ritmica ci si trova all'improvviso catapultati in un contesto tribal-tecnologico dove come folate di vento piombano le strofe del testo. Tragici luoghi comuni del nostro tempo dove si muovono tanti "sacrificati". Un arazzo in bianco e nero che De Gregori si trovò a commentare (giustificare?) con il Cardinal Tonini in una trasmissione televisiva. Grande trambusto, accuse di blasfemia, poi tutto finito. Rimane il pezzo, un grande pezzo. Dopo la delicata parentesi popolare di Stelutis Alpinis due pregevolissime gemme.
"Baci da Pompei", fotografia di due amanti sorpresi dall'eruzione del vulcano che si offrono alla morte forti del sentimento che li lega (pare che Francesco sia stato ispirato dalla visione del celebre calco degli amanti abbracciati di Pompei). Rustici ricama un delicato ed evocativo riff chitarristico si cui si scioglie il dialogo amoroso. Mai proposta in concerto, ma davvero bellissima. Molto rumore accompagnò anche "Prendi questa mano zingara". Una denunzia di plagio dagli autori del brano "Zingara" (Sanremo 1969) avente ad oggetto la strofa iniziale (la stessa che titola il brano). Sorvoliamo e deliziamoci invece con la prima strofa ("ora che il vento porta in giro le foglie e la pioggia fa fumare i falò") tra le più emozionanti e scorrevoli di Francesco. Forse la parte centrale di questo brano si concede una parentesi "metafisica" un po' di routine, ma la malinconia del pezzo è autentica. "Fine di un killer" è una riuscita filastrocca con accenni "paesani" e la conclusiva "Battere e levare" un piacevole country che, in voluto contrasto con la semplicità musicale, descrive la desolata condizione umana.
Come per molti altri album, e non solo del nostro, si può dire che non tutte le tracce sono di pari livello. Ma quello che a mio parere è più rilevante, fatta ovviamente salva la constatazione che comunque quattro grandi pezzi trovano spazio, è il riscontro di una "tinta" musicale specifica.
Il pregio di questo album va cercato nell'uniformità della sua impronta sonora, e cioè in quella timbrica originale che lo caratterizza e che lo colloca in un posto preciso all'interno della discografia di De Gregori, in questo senso non appaiabile né confrontabile con altri.
Da notare come, adeguandosi alla natura stessa del disco, la voce di Francesco si presenti leggermente più ruvida e meno piena del consueto. Preferisco pensare che questo avvenga non tanto, come venne sostenuto, come conseguenza di un periodo di stravizi del nostro, ma per una volontaria scelta espressiva.
In conclusione, al di là del giudizio qualitativo sui singoli brani, un pezzo unico nella storia musicale di Francesco De Gregori.
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