"Santa voglia di Vivere e Dolce Venere di Rimmel"
Esistono album che rimangono impressi nella memoria collettiva di ogni giovane, dischi attraverso le quali si rivive parte della propria giovinezza, “pezzi di vetro” sulla quale vengono incise parole che rimarranno impresse nella nostra mente per sempre. Eppure, nel lontano 1975, il giovane Francesco De Gregori non era del tutto conscio che stesse per scrivere il suo più grande lavoro, mettendo su bianco un picco di altissima liricità musicale e testuale.
Si, perché “Rimmel” è così: è un fiore germogliante in un prato di gentilezza, una delicata brezza di vento sul mare, una poesia ermetica condita in salsa agro-dolce. Tutto questo ed anche altro: è la tua ragazza ideale, quella che non hai ancora incontrato ma della cui esistenza ne sei certo, è un mucchio di parole abbozzate su un diario di scuola. E’ una frase semplice, ma che nasconde mille significati: “M’illumino d’immenso”. Cosa vorrà mai dire? Non c’è un significato ben preciso, e la sua poeticità è proprio qui. Ed ugualmente a Giuseppe Ungaretti, anche il cantautore romano ci aveva già abituato a questa molteplicità di incertezze, di favolistiche illusioni: anche l’Alice che guardava i gatti di qualche anno prima sembrava del tutto ignara di ciò che la circondasse. Ma in questo album tutto è meravigliosamente omogeneo, splendido, poetico, sentito:
“Ora le tue labbra puoi spedirle a un indirizzo nuovo e la mia faccia sovrapporla a quella di chissà chi altro. I tuoi quattro assi, bada bene, di un colore solo, li puoi nascondere o giocare come vuoi o farli rimanere buoni amici come noi.”
Qui l’amore finito non è visto come qualcosa di tragico, ma è un misto di dolcezza e disillusione, tra pochi gesti e timidi sorrisi. E’ un ricordo confuso e sognante, è una carezza sfiorata sul viso. Ma la voce di Francesco, già qui molto evocativa, esprime ancor di più la sua espressività nella tenera ballata di “Pezzi di Vetro”, struggente nella sua apparente frivolezza e retorica, uno sbiadito acquarello impressionista:
“Insieme visitata è la notte che dicono ha due anime, e un letto e un tetto di capanna utile e dolce come ombrello teso tra la terra e il cielo. Lui ti offre la sua ultima carta, il suo ultimo prezioso tentativo di stupire, quando dice "È quattro giorni che ti amo, ti prego, non andare via, non lasciarmi ferito".”
Margini cosi alti, impregnati di così tanta sensibilità e fragilità, saranno poche volte raggiunti nel corso dei settanta italiani. E dire che all’epoca, quando “Rimmel” apparve per la prima volta nei negozi, fu anche accusato di commercialità e di essere “troppo di moda”. Ma la bellezza di certe rime non è moda, perché quest’ultima passa ma certi brani restano. “I poeti, che brutte creature, ogni volta che parlano è una truffa”ci dice il nostro stesso autore nelle sue “Storie di Ieri”, amara e rassegnata riflessione sulle sciagurate conseguenze del Fascismo e di come quest’ultimo spinse le sorti della nostra penisola nel baratro. Ma la terza fatica discografica del nostro cantautore è anche e soprattutto innocenza, un fanciullesco vivere nel mondo della fantasia e dei racconti: ecco così che emerge la figura del fuorilegge che ruba ai ricchi per dare ai poveri, “Il Signor Hood”, con tanto di dedica a Marco Pannella, o lo sbarazzino ed ironicamente allegro valzer di “Buonanotte Fiorellino”:
“Buonanotte, buonanotte amore mio, buonanotte tra il telefono e il cielo. Ti ringrazio per avermi stupito, per avermi giurato che è vero. Il granturco nei campi è maturo ed ho tanto bisogno di te, la coperta è gelata, l'estate è finita. Buonanotte questa notte è per te.”
E così si può passare una notte guardando romanticamente la Luna, così fisicamente distante ma interiormente molto vicina a noi, come i “Quattro Cani” dell’omonimo brano, oppure partire e lasciare che il futuro culli il nostro destino, magari con una valigia priva di spago, poiché “solo un po’ d'amore la teneva insieme, solo un po’ di rancore la teneva insieme” come nelle riflessioni sull’emigrazione di “Pablo”. Ma c’è anche spazio per le piccole cose, quelle più intense e profonde:
“Mi metto in tasca un piccolo fiore, mi metto in tasca un piccolo fiore. Ti legassero stretta alla quercia più vecchia, se davvero non vuoi il mio cuore.”
O perché magari alla fine siamo tutti un po’ malinconici e sentimentali, come il pianista di piano Bar che “suonerà finché lo vuoi sentire, non ti deluderà” e “canterà finché lo vuoi sentire, non ti disturberà”. Ecco, la mia recensione su “Rimmel” probabilmente dovrebbe finire qui. Forse non ci sono più parole, forse le frasi sono terminate, forse è giusto che mettiate da voi il disco nel lettore: perché certe emozioni è giusto provarle sulla propria pelle, perché certe sensazioni sono strettamente personali…
“…come quando fuori pioveva e tu mi domandavi se per caso avevi ancora quella foto in cui tu sorridevi e non guardavi. Ed il vento passava sul tuo collo di pelliccia e sulla tua persona e quando io, senza capire, ho detto sì. Hai detto "E' tutto quel che hai di me". È tutto quel che ho di te.”
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