In ogni disco di Francesco Guccini c’è la canzone destinata a diventare nel tempo un chiodo fisso dei suoi concerti.
In questo “Parnassius Guccinii”, titolo dedicato al nome vero di una farfalla scoperta da uno zoofilo suo amico e a lui dedicata per la mole del fenicottero, la canzone di punta è senz’altro “Canzone per Silvia”, dedicata a Silvia Baraldini, il cui caso, nel 1993, era al centro delle attenzioni di chiunque avesse a cuore i diritti umani. Una dedica molto sentita, una canzone che parla delle contraddizioni di questa America (e anche di altri paesi, si potrebbe dire), che sembra tanto libera, con una statua che simboleggia la libertà. A Silvia e a tanti come lei, questa statua simboleggia soltanto una prigione federale. Non ci sono idee per cui valga la pena restare in prigione, e lei era una di quelle persone in galera senza avere mai ucciso nessuno e rubato niente.
“Acque” è un pezzo che doveva finire nella colonna sonora di un film, “Nero”, del padre di Dylan Dog, Tiziano Sclavi. È una bella canzone, lenta con buoni inserti di sax e di fisarmonica. Come da titolo, è una canzone sull’acqua che scorre senza chiedersi il perché.
Poi c’è una storia che sembra molto reale, ambientata in una Milano di periferia, una Milano schizoide di questi tempi. Una storia fra due ragazzi, Samantha e Andrea, due ragazzi che vorrebbero parlarsi d’amore ma non ne hanno il coraggio, ed è il pezzo che contiene una delle frasi con le quali Francesco viene identificato ancora oggi: “ed io burattinaio di parole”.
“Farewell” è il ricordo di una lontana storia d’amore, un amore che si credeva speciale e invece è finito come una storia “normale”, la malinconia trasuda da ogni riga di questo bellissimo pezzo.
La sferzata di ironia (direi quasi di sarcasmo) viene da “Nostra Signora dell’Ipocrisia”, con una frase che torna buona in questi giorni dove “alle sfilate degli stilisti si trasgrediva con meno allegria”, vi viene in mente niente? Comunque una spietata fotografia di quello che, ancora oggi, forse più che mai, è il desolante mondo dei mass-media e della politica. Francesco, in un’intervista, faceva paragoni con la sua canzione e “La Domenica delle Salme” di Fabrizio De André e direi che le due canzoni in qualche modo si possono anche accostare per similitudine di tema.
Ormai la nostra vita si sta sempre più trasformando in un gigantesco “reality-show”, a questo punto, in questo mondo dove l’arte è sempre più ridotta a merchandising, e visto che pare che la massa voglia sempre di più questi pseudo-programmi e che il “Grande Fratello” è in corsa per i Telegatti della cultura, “facciamo tutti del cinema”.
“Non bisognerebbe mai ritornare. Perché calcare i tuoi vecchi passi, calciare gli stessi sassisu strade che ti han già visto ad occhi bassi?” Invece Francesco torna sempre sui suoi passi, è uno che ricorda. E tante volte i ricordi fanno male alla vecchiaia.
In “Luna Fortuna”, musica argentina, una chacanera, si sente la chiara influenza, oltre che la voce di Juan Carlos Biondini “Flaco”, il chitarrista argentino che da una vita è al fianco di Francesco. Erroneamente Francesco scrisse il testo in battere, dimenticando che la musica argentina è tutta in levare, ma da questo errore nasce un pezzo comunque affascinante.
L’album si chiude con un brano minore, uno “scarto”, come ammette anche Francesco, dovuto al fatto che bisognava “riempire” il CD. Però non è brutta, anzi, è un pezzettino allegro che parla di cosa vuol dire scrivere canzoni.
Un’arte che Francesco ha sempre saputo fare benissimo, pur con i suoi alti e bassi. Questo disco appartiene indubbiamente ai suoi “alti”.

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