[Contiene la trama]
Anime nere si distingue nettamente dai film di genere mafioso; la sua ricchezza è data soprattutto dalla capacità di sottrarre quegli stilemi che sembrano inevitabili quando si parla di questa tipologia di narrazioni. Munzi ci mostra con grande efficacia che un dramma non deve necessariamente estrinsecarsi in una forma ostentatamente violenta. Prendendo la categoria più ampia dei film di gangster, credo si possa affermare con una certa sicurezza che siamo di fronte ad una polarità estrema del continuum che idealmente si estende dall'uso massimale della violenza alla totale assenza di questa. Qui non si vedono quasi sparatorie, si sparano 3 o 4 colpi in tutto il film, ma invece che smorzare la potenza corrosiva della narrazione, l'assenza visiva della violenza ne amplifica fortissimamente gli effetti, per due motivi; da una parte, l'attesa del dipanarsi cruento del conflitto rode lo spettatore per tutta la durata della narrazione, dall'altra, le reazioni umane ad ogni singola parola, ad ogni minaccia, ad ogni pallottola, sono esplicate con dolorosissimo approfondimento.
L'operazione è intelligente; inutile tentare di inscenare il classico conflitto tra famiglie mafiose, è già stato fatto con grande successo. Meglio approfondire tutto il grumo di sentimenti, dolori, contrasti più o meno accesi, tra rivali ma soprattutto tra le diverse inclinazioni caratteriali dei membri della stessa famiglia. Anzi, si potrebbe dire che la questione del contrasto tra la famiglia dei protagonisti e quella dei rivali Barreca è quasi evitata, per una volontà decisa di non affrontare la dimensione romanzabile e potremmo dire super-omistica della criminalità. Munzi non concede ai suoi spettatori la lusinga, mai confessata ma innegabile, della vendetta che i protagonisti si prendono sui loro nemici. Il parteggiare del pubblico per una fazione è infatti fuorviante; non concedendo nessuna rivincita, il regista sposta il focus dalla questione parziale del desiderio primitivo di vedere ottenuta un'agognata vendetta al problema a monte dell'insensatezza autodistruttiva di una simile logica. Anime nere lavora alla mortificazione di tutti i clichè che trasformano la tragedia in fiction; niente sangue, nessun godimento macabro, rimane solo il nero pece di una vita che in verità è un «vivere la morte».
Resta quindi l'affresco umano e ambientale; il primo è un mosaico di geometrica definitezza, in cui i tasselli si distinguono per le diverse gradazioni di grigio che separano il candore dolorosissimo di Luciano dal nero nichilista e cieco del figlio Leo. In questo scenario umano troviamo tante diverse anime, mai completamente nere, che rappresentano il vero nucleo tematico: l'arroganza tracotante e insieme ingenua di Luigi, non a caso prima vittima del meccanismo tragico, la tagliente lucidità e intima fragilità di Rocco, la disillusione di Luciano che affonda le sue uniche speranze nel sentimento del sacro e nei legami familiari, fino alla sventatezza assoluta e quasi incolpevole di suo figlio Leo.
Si approfondiscono i contrasti tra le diverse anime di una sola famiglia, che appare quanto mai frammentata e disomogenea; non si arriva nemmeno a pianificare una vendetta, tutto si gioca tra le varie spinte centrifughe che disgregano il già precario sistema familiare. Luigi invita a casa di Luciano un temibile boss della zona, attirandosi le ire del fratello maggiore e soprattutto la sentenza inappellabile dei nemici Barreca; Rocco si dibatte tra un desiderio smanioso di vendetta e la fragilità sostanziale del suo temperamento, Luciano è rassegnato all'idea che inimicandosi una famiglia così forte, il loro destino sia già segnato. In questa scacchiera si inserisce Leo, che prende l'iniziativa sfuggendo al controllo del padre e dello zio; ma il tradimento dell'amico ne decreta la condanna. A questo punto, l'inerzia di Rocco si mostra nella sua colpevolezza ed è quindi il padre disperato ad agire: ma non tenta nemmeno una vendetta, che non porterebbe a niente. Luciano, ed è questo l'intelligente passaggio finale della trama, non fa altro che accelerare la distruzione della sua famiglia; ne è simbolo la sequenza in cui brucia la foto del padre, fino a quel momento suo nume tutelare. Con l'uccisione del fratello Rocco (e si presume di se stesso) porta a compimento un processo che era ormai ineluttabile.
L'assenza di fronzoli estetici, una fotografia cupa, i dialoghi scarni, l'assenza quasi totale di musiche; tutti gli elementi formali concorrono a smascherare il senso profondo degli intrecci mortiferi tra clan rivali, e cioè un lento ma inarrestabile processo di logoramento di un tessuto sociale e umano sempre più fragile e malato. Le morti degli uomini, troppo spesso mostrate nei film come eliminazioni di pedine da una grande scacchiera, hanno un portato nefasto su tutto il reticolo umano di cui quegli uomini facevano parte. Si spiega così la sottolineatura delle lunghe litanie che le donne recitano dopo la morte di Luigi; un tema forte è lo svelare la lenta ma capillare reazione di dolore che la società ha di fronte alle uccisioni. Se i capifamiglia discutono sul da farsi, le donne pregano, le madri si disperano, i preti predicano inutilmente; i figli crescono scellerati. Con l'azione assurdamente ingenua di Leo e la reazione distruttiva di suo padre si chiude il cerchio di nefandezze: la smania di Leo è prodotto di un ambiente tremendamente diseducativo, la reazione di Luciano è la resa dell'uomo saggio di fronte alla supremazia soffocante dei meccanismi inarrestabili del male.
La tragedia non ha nemmeno la sua catarsi; la morte di Leo è tagliata, come per senso del pudore, la reazione di Luciano è smorzata nella resa estetica e privata di qualsiasi sottolineatura tragica o estetizzante. Le sue azioni sono glaciali, non c'è possibilità di dialogo con i familiari: se anche l'uomo cauto, che si fa umiliare pur di sottrarsi al meccanismo perverso, subisce la tortura estrema di vedere morti un fratello e il figlio, allora non c'è alcuna speranza da nutrire, tanto vale spegnere immediatamente l'esistenza dell'intera famiglia. Non ha senso continuare a vivere.
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