Sul lungomare di Napoli ho visto tanti ragazzi con la maglietta di Narcos e in via San Gregorio Armeno diverse statuine di Genny Savastano di Gomorra la serie. È il destino di certe opere - particolarmente fraintendibili - quando incontrano un pubblico incapace di distinguere tra eroi e non, soprattutto quando non ci sono delle distinzioni nitide, ma uno spettro di grigi. Se film come Gomorra di Matteo Garrone o Anime nere di Francesco Munzi non lasciano dubbi sull'intima miseria della condizione di criminali, ce ne sono altri che hanno fatto proprio del fraintendimento tra eroismo e crimine la loro forza, proprio grazie all'incapacità del pubblico di capire.

Il padrino è un film amato per la sua profondità nel ritrarre un mondo e una famiglia di criminali che però ha anche dei valori? Forse, in parte. Ma per il grande pubblico le gesta di Vito e Michael Corleone sono puramente epiche, violenza e intrighi come quelli di Goodfellas e tanti altri film. Il grande pubblico non credo abbia mai colto i sottili distinguo morali di Francis Ford Coppola de Il padrino - Parte II. In una importante classifica cinematografica Michael Corleone appare come undicesimo miglior cattivo di sempre. La cosa mi ha colpito parecchio perché annoverarlo tra i villain mi sembra indicativo dell'incapacità di molti, critica compresa, di capire appieno un film complessissimo come il secondo della saga. L'ho riguardato dopo molti anni e vorrei dire alcune cose.

È un'aporia, un paradosso morale che continua a riproporre le sue istanze contraddittorie senza che sia possibile trovare una soluzione. Non c'è dialettica possibile con una sfinge demoniaca come il gigantesco Michael Corleone di Al Pacino. Il suo sguardo non si poggia sulle persone intorno a lui, guarda all'infinito, o nel vuoto se vogliamo, è impossibile deviarne la traiettoria rispetto ai suoi obiettivi. Nel suo essere un boss criminale, Michael è in un certo senso puro nei suoi propositi. Ed è questo il paradosso che fa vivere tutto il film, in entrambe le sue scansioni cronologiche. Ci sono dei valori che sottendono al disvalore criminale. Ma se per Vito si trattava di questioni più semplici, figlie di un'altra epoca, con Michael il mondo inizia a complicarsi e tutte le contraddizioni di un criminale gentiluomo emergono clamorosamente. Finché si tratta di proteggere un quartiere, è tutto più semplice, ma di fronte a sfingi altrettanto temibili come Hyman Roth, la rivoluzione cubana, i giudici, la politica, la stampa, il confronto inizia a diventare impari.

Il linguaggio e la regia di Coppola enfatizzano questo cambiamento dei tempi. Le scene che raccontano di Vito sembrano avere una filigrana quasi farsesca, perché tutto sommato si tratta di questioncelle ancora piccole, pur comportando dei morti. E anzi, anche la morte non fa orrore, è mostrata con enfasi perché riguarda fatti ormai nella storia, come in una narrazione dell'epica mafiosa, non è passibile di un giudizio morale. E in quelle sequenze è vero che il criminale diventa eroe, per precisa volontà registica. Vito è stato massacrato fin da quando aveva nove anni, è stato portato in una realtà aliena, dove ha dovuto lavorare a testa bassa, umilmente, per un piatto di minestra. Poi a un certo punto ha detto basta, s'è ribellato alle legnate abbondanti della vita, s'è accorto di avere il pelo sullo stomaco anche più di don Fanucci e da quel momento non s'è più potuto fermare, ma sempre con un piglio bonario, fedele all'intento di proteggere il suo quartiere. Ovviamente, nella sua lunga vita avrà anche compiuto tante nefandezze, ma sempre secondo una logica (perversa, ma figlia di una fame insaziabile che anche quando è sazia, sazia non è) che ha le sue soglie invalicabili. Tutto sembra naturale e quasi inevitabile nella parabola del padrino, come se lui non scegliesse davvero, ma seguisse semplicemente una logica basilare e una morale antica, dopo l'atto spregiudicato e coraggioso che ne ha decretato l'emergere rispetto agli altri scarafaggi di quartiere. Ma è un inganno filmico! Coppola confezione un'agiografia che rispetto ai dati di realtà non si può non definire quanto meno reticente.

Sul fronte opposto, Michael sembra invece un demonio. Ma è così diverso dal padre Vito? No, tutt'altro. Ha dei valori, ha dei limiti che non intende superare, eppure la sua figura non può che emergere come demoniaca, sempre per precisa volontà del regista, che insiste su di lui con lunghi primi piani che esaltano tutti gli spigoli della sua persona. L'avida aggressività nelle trattative, la durezza “antica” nei rapporti familiari, la sacralità del rispetto da portare al suo nome, la furia vendicativa che non guarda in faccia nessuno. Padre e figlio non sono tanto diversi, a cambiare è la complessità del reale, le esigenze delle mogli, le discordie tra fratelli, la furbizia e l'opportunismo di politici e istituzioni. Vito non aveva nulla e quindi nulla da perdere. Era un puro senza paure. Michael ha tutto e tutto da perdere, è un puro avvelenato dalla paura, dal rovello del dover essere forte e dal terrore di essere meno grande rispetto al padre famoso. Il terrore di non riuscire a sopportare il peso di tutta la famiglia lo porta a distruggere quella stessa famiglia.

La violenza quasi carnevalesca del racconto su Vito diventa algida e quasi nascosta nelle vicende grige di Michael. Esecuzioni chirurgiche, suicidi di romana memoria, non mostrati, soffocati dalle angosce del mandante che vive le uccisioni non come atto di vitalità spensierata del più forte, ma sotterfugio finale del re che vede sgretolarsi tutto il suo regno intorno. Le morti sono problematiche, discusse già prima che avvengano; sono ampiamente previste eppure sempre contestabili, irrisolte e opinabili nella loro necessità. Gli assassinii di Vito sono invece solari, sacrosanti, gioiosi quasi. Anche questa è una forzatura cinematografica che vuole mostrare una decadenza generazionale, ma che lo spettatore accorto deve disinnescare e non dimenticare che sempre di omicidi si tratta. Quelli di Vito non sono meno gravi. Il cineasta mette nel suo film di mafia più riuscito anche la nemesi più temibile per opere di questo genere: la tentazione di far rientrare questi protagonisti in categorie morali canoniche. In questo modo, impone uno sforzo ulteriore - ma assai gratificante - per arrivare alla comprensione perfetta della sua opera.

Mette il suo protagonista amletico in uno studio pieno di mobili e divani scuri, solo, con il diavolo negli occhi. Poi mette suo padre, l'eroe epico, in una New York felice, folcloristica, spensierata. Lo fa parlare con una vocina stridula, quasi sempre in dialetto siciliano, lo circonda di pargoli, lo mostra mentre li riempie di affetto. All'opposto, suo figlio sbatte la porta in faccia alla madre dei suoi bambini. Ma è un inganno, quello che Coppola tende al suo spettatore. Vito non è buono, Michael non è cattivo. Sono entrambi a loro modo crudeli, malvagi, sanguinari, e a loro modo buoni, amorevoli, affezionati. La decadenza è nei tempi, è costitutiva delle cose, del sangue, delle generazioni.

Oltre a questa aporia, c'è un film che a differenza del primo ha meno voglia di enfatizzare gli intrighi e i colpi di scena, preferendo le campate più ampie e lente della sceneggiatura, costruendo una narrazione che si concentra sui personaggi e sulle loro filosofie esistenziali, più che su grandi scene emozionanti e adrenaliniche. Quasi un'opera sussurrata, un dramma da camera con lunghe scene dialogate, che si dipana con semplicità pacificata, senza il bisogno di promettere forti emozioni, ma amplificando le tessiture meno spettacolari e quasi annullando la componente più affascinante del mondo criminale. È tutta una grande premessa dolente, fatta di parole acuminate, che sancisce il fallimento del dialogo che Michael cerca di portare avanti con i suoi amici “e soprattutto i nemici”. Il boss cerca davvero una via moderata, ma l'eredità violenta della famiglia gli ribolle nelle vene e di fronte a ogni fallimento di mediazione, l'unica soluzione che vede è quella del sangue. Esecuzioni compiute quasi con tatto e sensibilità, per pura necessità funzionale o per non venire meno alla coerenza rispetto a certi valori antichi che non si possono dimenticare. Michael è quell'anello di congiunzione tra il rigore estremo (e doloroso) del passato e lo sbriciolarsi di ogni paletto morale che inizia a insinuarsi anche nella famiglia Corleone. E la sua rigidità, invece di arrestare la decadenza, non fa altro che accelerarla, perché applicare i valori di don Vito a un mondo cambiato, che richiede elasticità, non può che peggiorare le cose e fare terra bruciata intorno al nuovo, oscuro padrino.

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