“Lo feci perché Michael non aveva ancora pagato per i suoi peccati”. Francis Ford Coppola ha spiegato così la ragione di questo film (apparentemente) inutile.

Sceneggiatura rasoterra e senza lampi per oltre un’ora. Più di un’ora di sbadigli e di rimpianti per il Coppola dei tempi d’oro. Poi qualcosa di grande, qualcosa che distrugge in un attimo l’epica criminale dei primi due episodi – quell’epica che ha affascinato tanti e fatto infuriare tanti altri – e che trasforma il mito dell’onorata società in quello che è: “banalità del male”.

“Che ne diresti di confessarti?”

“Vostra eminenza, io non saprei… Sono trent’anni… Le farei perdere troppo tempo”

“Ho sempre tempo per salvare un’anima”

“La mia è un’anima irrecuperabile”

“Non dire così”

“A che serve la confessione se io non mi pento?"

“Dicono che tu sia un uomo pratico. Cos’hai da perdere?”

Michael cede. Davanti ha un brav’uomo. Un vero prete. Roba d’altri tempi.

Vomita tutto il padrino: “Ho ucciso la carne di mia madre…”. Piange. È sincero. E il prete deve assolverlo. Glielo ha ordinato il suo God-Father.

Ma per trovare la pace non basta una confessione. Serve il dolore. E quale dolore più grande della morte di un figlio? Davanti a una cosa del genere, delle due l’una: bestemmiare o sopportare.

Delle due, la seconda. Michael si mette al posto del buon ladrone e accetta serenamente il crogiolo che screma l’oro dalla terra. Dopo il fuoco, davanti ad uno splendido crocifisso in legno, la pietra del cuore del padrino si sminuzza in mille pezzi: “Signore dammi la possibilità di redimermi e ti prometto che non peccherò mai più”.

Se i veri preti non fossero solo nei film, le conversioni dei criminali non sarebbero solo nei film.

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