Non basta chiamarsi Battiato. Sì, perché il messaggio sottotraccia di quest'opera parrebbe proprio essere "basta chiamarsi Battiato perché ogni cosa, quasi fosse Re Mida, diventi oro al solo tocco". E invece no: non basta chiamarsi Battiato. Che non è Mina e non è neanche Joe Cocker, per dire i primi due grandi interpreti che mi vengono in mente. Ma non è neanche Robert Plant o Paul Weller, per dire due autori che si son misurati con la "missione" delle cover esclusivamente come "vero atto d'amore" verso l'opera altrui. E non è tragicamente neanche il Battiato degli altri due "Fleurs", dischi di manifesta malinconia ma belli, sentiti, profondi. Non privi di qualche svarione, ma quasi perfetti. Qui, invece e purtroppo, siamo al festival dello svarione, al trionfo dell'imbarazzo, all'estasi del fuoritema e del fuoriluogo. Qui si pecca tanto di inutile barocchismo quanto, e soprattutto, di spocchia pseudointellettuale, confezionando un prodotto di conclamata inutilità, perdipiù tragicamente irritante. Sarà forse una reazione, ma il nostro Francuzzo, dopo un capolavoro "alto" e "altro" come "Il Vuoto", vetta difficilmente raggiungibile o superabile d'austerità non compromissoria, è evidentemente in periodo di svogliato meretricio: dall'imperdonabile (per lui quanto per Fossati, intendiamoci...) collaborazione con Titty Iron, al mezzo duetto con Mango. Per arrivare così a questo disco triste, fuori senso e luogo. Non alto, svogliato, non ispirato, dove, a mio parere, si salva solo il duetto con la Consoli, che riesce ad essere molto interessante senza, intendiamoci, essere un capolavoro. Per il resto, passato qualche brano che si lascia ascoltare senza troppo ferire, le vette dell'orrore si raggiungono con "The dock of the bay" (pensarne una più fuori dalle sue corde è difficile) e "Bridge over troubled water", che non dico Garfunkel, ma ascoltiamoci quella di Elvis tutta la vita. Insomma: non basta essere Battiato e "battiatizzare" ogni canzone perché questa abbia un senso. E coi diritti di Titty Iron lui e Fossati si riempiono le tasche di certo. Lontani, lontanissimi dal concetto dell'arte onesta, della coerenza e dell'Altezza letteraria cui molti nostri cantautori, nell'ultimo trentennio, ci avevano abituati. Inutile: la scuola cantautorale italiana, madre di mille capolavori e della miglior poesia del secondo novecento nostrano, sta evidentemente scollinando verso pianure tristi, nebbiose e compromissorie. La decadenza di un impero che aveva il suo bello proprio nel non essere un impero, ma semplicemente una scuola. La fine di una realtà che era sogno, per il nostro povero paese, dominato, ormai senza contrasti, da analfabeti di ritorno e dai furboni che questo analfabetismo hanno voluto e fortemente costruito. Francuzzo, se non resisti tu, chi resiste?

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