"Dieci Stratagemmi" si era concluso con "La porta dello spavento supremo", il manifesto della caducità delle cose, serena e distaccata accettazione della fine ("Nell'apparenza e nel reale, nel regno fisico e in quello astrale, tutto si dissolverà"). Fine che comprende, inevitabilmente, la nostra esistenza terrena.
Proprio da qui sembra ripartire l'ultimo lavoro di Battiato, che in un certo senso va visto come reazione fisiologica ad una tale presa di posizione, e quindi come un punto di arrivo nell'irrequieto percorso intellettuale dell'artista catanese.
La sostanziale differenza con l'illustre precedessore sta tutta qui: "Dieci Stratagemmi" brillava di una urgenza comunicativa tale da costituire un atto di affermazione di indipendenza intellettuale, un vero pugno in faccia in cui l'autore, fra rabbia, disincanto ed appassionate elucubrazioni metafisiche, ha evidentemente colto l'occasione per togliersi qualche sassolino dalla scarpa e chiarire le sue visioni/posizioni di disappunto verso un mondo percepito come caoticamente inutile. Ne "Il Vuoto", invece, questa urgenza comunicativa non si avverte, mentre è già in atto la fuga dal mondo complesso. Ascoltare questo album è come sfogliare le pagine di un diario: le parole scaturiscono dal profondo e sono scritte di getto, senza particolari artifici, scioglilingua o girandole semantiche. Parole semplici di chi parla a se stesso e non deve dare spiegazione alcuna.
Alla luce di quanto udito in "Dieci Stratagemmi", e negli ultimi irrequieti lavori, un titolo come "Il Vuoto" non può che risultare fuorviante. Il vuoto, infatti, assume per Battiato un duplice significato: non è, come ci aveva suggerito il singolo apri-pista ("Il vuoto", appunto) chiamato a rappresentare esclusivamente il disorientamento, l'abisso, il vuoto di senso che caratterizza l'uomo e la società contempotanea. Il vuoto, nel Battiato pensiero, assume anche una valenza positiva, ossia viene identificato come lo spazio che si presta ad essere riempito, fisicamente e spiritualmente. Come un luogo di speranza, quindi, come il luogo in cui principiare l'opera di ricostruzione della propria dentità e del senso da attribuire alla propria esistenza. L'abisso, quindi, come male da sconfiggere ma anche come premessa della rinascita.
Dopo aver spazzato via tutto con la sua opera di destrutturazione, "Il Vuoto" diviene per Battiato l'occasione per celebrare la riscoperta delle piccole cose: una fuga dalla frenesia e dal caos del mondo complesso, e al contempo un riavvicinamento alla natura, al silenzio dei boschi e all'insegnamento delle stagioni, che si avvicendano come la gioia e la felicità succedono alle avversità.
Tale intento (la ricerca di semplicità e l'avvicinamento all'essenza delle cose), si ripercuote coerentemente nelle musiche, nei testi e nel mood dell'intero album, in cui si respira generalmente una frizzante aria primaverile, un'aria di di speranza, un bisogno di quiete, di riposo o meglio ancora di ozio da parte di chi ne ha passate di cotte e di crude. Una serenità che s'intravede, che viene e va, che è fuori dal nostro controllo, ma che c'è, e che è perseguibile riavvicinandosi alla saggezza e al buon senso della natura. Uno stato di cose inesplicabile, che si può solo sentire ma non raccontare, né tanto meno spiegare, anche perché questo va ricercato in noi, ognuno con la proprie modalità.
E Battiato non solo non prova a spiegarcelo, ma nemmeno vuole far finta di spiegarcelo: per la prima volta nella storia dell'autore, i testi ci appaiono di una semplicità formale disarmante, sorretti da un vocabolario povero e da costruzioni lineari che evitano accuratamente i virtuosismi lirici che da sempre hanno caratterizzato la poetica dell'artista.
E quando nelle interviste Battiato ha lasciato detto che questo è uno dei suoi album più ispirati di sempre, non c'è che da credergli. Parole semplici, le sue, senza dubbio pregne di significati profondi (e come potrebbe essere altrimenti quando si parla di un artista come Battiato?), ma purtroppo strettamente e rigorosamente personali: con l'inconveniente che, per chi le ascolta e non è nella testa di chi le canta, possono anche apparire, a tratti, di una banalità inconcepibile se si pensa che si sta parlando di un autore come Battiato.
Ad accompagnare in questa avventura il buon Franco, oltre che agli immancabili Manlio Sgalambro, co-autore dei testi, e Carlo Guaitoli, al piano e alla direzione della Royal Philharmonic Orchestra, troviamo due formazioni giovanissime: gli FSC (che già parteciparono alle registrazioni di "Dieci Stratagemmi") e le MAB, un gruppetto di grintose fanciulle. Nessun special guest, questa volta, a prestare il proprio talento.
Il sound, in linea con la dimensione lirica, va ad abbandonare le costruzioni complesse e le irruzioni di ritmiche e chitarre che avevano caratterizzato l'ultimo Battiato, e va a recuperare un suono essenziale, cristallino, fresco, che si compone non altro che dei tocchi eleganti di un pianoforte, dei fraseggi di una chitarra mai protagonista, del soffice tappeto di una elettronica minimale, dei sontuosi arrangiamenti dell'orchestra. Scontato precisare che il tutto è confezionato con la consueta professionalità.
"Il vuoto", singolo apri-pista, non mi aveva entusiasmato e continua a non entusiasmarmi: è il poppettino velocino a cui Battiato ci ha stra-abituati, fin dai tempi di "Summer on a solitary beach", naturalmente modernizzato nei suoni e negli arrangiamenti. Melodia scontata, ritornello urticante, una penosa incursione di un baritono che vorrebbe ravvivare la situazione, e un testo un po' banalotto ("Tu sei quello che tu vuoi, ma non sai quello che tu sei") che va a descrivere, con minore convinzione ed incisività che in passato, il senso di frenensia, lo stress, i malesseri psico-sociali e la perdita di identità che caratterizzano la società contemporanea.
Altro discorso merita "I giorni della monotonia", il vero capolavoro dell'album, nonché uno dei migliori brani scritti dal Battiato degli ultimi anni, e che non a caso ci riporta dritti dritti ai fasti di "Gommalacca". Un inno all'individualismo, una visione disincantata e scevra da ogni romanticismo dell'amore. Amore che inevitabilmente comporta lo scontro di diversità, l'incomunicabilità, il sacrificio e la lesione della sfera individuale ("Sto con me, fra noi due ho scelto me", recita il verso finale). Un brano che ci riconsegna il Battiato più cinico e disincantato, demoniaco quasi nell'auto-compiacenza con cui riesce a smitizzare le certezze e i luoghi comuni più intoccabili.
"Aspettando l'estate" è un altro pezzo forte di questo album, che ricorda, nel suo crescendo epico, le miracolose evoluzioni di un brano inarrivabile come "La cura". Un canto di speranza e di amore che entra in apparente contraddizione con quanto espresso nella song precedente. Ma in realtà sono i piani ad essere totalmente diversi: "Anche se non ci sei, tu sei sempre con me, per antiche abitudini, perché ti rivedrò, ovunque tu sia"; è l'idea di eternità di Battiato che riaffiora ancora una volta, la forza inestinguibile dello spirito che va oltre la caducità delle apparenze. Una visione delle cose che va oltre la percezione limitata del singolo e presuppone un disegno più ampio, una ciclicità, un eterno ritorno che alimenta le nostre speranze, sopprattutto innanzi alle avversità, che non rivestono altro che un ruolo temporaneo.
"Niente è come sembra" ci riporta invece al Battiato più esistenzialista, da sempre interessato al dualismo apparenza vs realtà. Purtroppo un ritornello puerilmente didascalico come "Niente è come sembra, niente è come appare, perché niente è reale" non solo ci appare banale, ma non aggiunge alcunché di nuovo alla novella che da anni oramai il buon Franco ci ripropone, e che francamente è stata meglio espressa in passato. A salvare un brano tutto sommato mediocre, è il guizzo di genio di una surreale incursione in lingua inglese ("I was in my car watching for the bend, I was looking for you"), un colpo da maestro che ci riporta al Battiato più enigmatico.
"Tiepido aprile", per sola voce ed archi, è l'emblema del Battiato targato 2007: è una mistica passeggiata per i boschi che odora delle resine dei pini e che porta in sé la leggerezza delle nuvole. Una riconciliazione con se stessi attraverso la natura, il riposo dei sensi e il ristoro dal caos e dalla frenesia della città, ben rappresentato dalla seguente "The Game is over", che, insieme alla title-track, costituisce l'unico brano un po' movimentato della raccolta: è il pulsare della techno più incalzante, questa volta, ad animare, fra italiano ed inglese, le visioni (e le questioni) dell'artista ("Dov'è che stiamo andando, nel succedersi del tempo, avrai un progetto o no per la tua vita?"). Piacevole parentesi che ci desta dalle atmosfere languide che la precedono, ma che certamente non ci fa gridare al miracolo.
"Era l'inizio della primavera", non è altro che l'incontro di un'aria classica di Tchaikovsky e un testo di Tolstoi riadattato da Battiato, in cui si va a bissare le atmosfere primaverili di "Tiepido aprile": pianoforte, violini, ed uno sguardo nostalgico verso il passato, verso la purezza della gioventù e l'ingenuità dei primi amori. Pregevoli i cori femminili nel finale che danno al tutto un tocco di folk inglese.
"Io chi sono", fra spiritualità, filosofia esistenzialista e fisica quantistica, ribadisce, a mio parere stancamente, i soliti temi di "Apparenza e realtà" ("Tutto è illusorio, privo di sostanza, tutto è vacuità"), a riconfermare ancora una volta, in maniera nemmeno troppo brillante, una storia che oramai conosciamo come le nostre tasche.
La conclusiva "Stati di gioia" è invece l'altro vero capolavoro dell'album (insieme a "I giorni della monotonia"). Torna finalmente il Battiato visionario ed evocativo che più amiamo. "Scopersi per caso lo stato che ascende alla Gioia, masticavo semi di mela alla luce del mattino, le increspature dell'aria sembravano pulsare, mi giungevano frasi, odori di erbe bruciate, scintille di fuochi, suoni lontani": è il non senso della felicità, l'inesplicabilità dei momenti che la precedono, l'emozione che inseguiamo nell'intera nostra esistenza ma che risiede assolutamente al di fuori nel nostro controllo. E' l'idea di un uomo piccolo piccolo che nella vastità dell'universo non ha proprio ragione di prendersi troppo sul serio. L'uomo piccolo piccolo che puerilmente fugge dalla natura, che erra cieco per il mondo, che diabolicamente persevera nei propri errori, che si affanna alla ricerca della felicità, non accorgendosi che essa risiede in se stesso. "Riti di purificazione, dentro stati di gioia, senza Luce né Oscurità": questa è la frase con cui ci saluta Battiato, lasciandoci nell'incertezza e con una visione che va oltre il manicheismo di una semplicistica contrapposizione fra bene e male. Non vi è luce né oscurità, spiega Battiato all'apice del proprio relativismo, e solo in noi risiede la via per raggiungere la propria (personale) felicità.
Trentatre minuti e trentatre secondi, questi, che scorrono come un bicchier d'acqua: semplici, lineari, rinfrescanti. Insomma "Il Vuoto" è un album elegante ed estremamente curato che, pur non trattandosi di un capolavoro, non deluderà i fan più comprensivi. Un album che testimonia un talento artistico che dopo tanti anni, fra alti e bassi, non sembra affatto appassire. Un album, purtroppo, in cui aleggia il fantasma inevitabile del déjà-vu, ma che è in grado di regalare autentiche gioie, tre per l'esattezza: "I giorni della monotonia", "Aspettando l'estate", "Stati di gioia", fra le cose migliori mai scritte dal nostro, ma francamente troppo poco per non far sorgere nell'ascoltatore una puntina di delusione.
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