Aridanghete col "trasecolare" davanti allo scorrere dei secoli... Brocani prova anche lui a rompersi la testa di constatare qualcosa con quel membro barzotto che è il cinema... Il bello è che, in un'asetticità sintetica, ci riesce pure.

Le forzature palesi, subitamente irritanti, confondono i fruitori gettando bocconi in eccesso, dove però tutto questo ambaradan di barocco inconcludente è il passepartout per entrare nella stanza di un'eternità che conosce lo scherzo di allupparsi su se stessa, al fine di preservare la purezza di una noia di un'apparente immobilità.

Vorticosa in realtà risulta la disamina di uno snobbamento del libero arbitrio, dove una maieutica è portata nel comunicare a noi stessi il non riflesso nello specchiarsi.

Ed ecco che l'aggrapparsi alle ombre di figure epiche di un passato che permane immoto nell'immediato, fa sì di suggerire che uno dei tanti "eterni ritorni" sono solo particelle, colori, brandelli di sedimentazioni impersonali che macchiano la nostra anima affinché si possa essere ripresi di sfuggita dalla camera.

Il momentaneo fantasma pizzicato nella sua inerzia ci fa rubare attimi di infinito che scivolano tra le dita, resettando la concezione di sacro.

E il revisionismo esistenziale proposto senza troppi patemi d'animo da Brocani, è spietato nella sua accumulazione trascendente, dove il mistico ha la valenza di qualsiasi altra cosa, dove riusciamo a rispondere alla domanda di Carrol del "corvo-scrittoio".

Il sensazionalismo dei protagonisti che intervengono nel rimarcare la farsa della vita in cui siamo immersi, è un escamotage infantile per fare scattare la cartina tornasole della nostra leggerezza animica rapportata al blasone dei personaggi.

Il sangue blu viene fuori dalla bastardaggine millenaria accumulata, in barba a qualsivoglia araldica esibita. Le gengive nascondono col loro arcaico pigmento blu cobalto la vera nobiltà della coscienza.

Il rosso sangue della scenografia di Frankenstein diluisce la possessione dell'ego, aiutata da litanie "Biancanevate" che immobilizzano la meccanizzazione del "voler fare" con un salotto infinito. C'è la freschezza del ricordo effimero di passati trionfi che viene subito assiderato da uno zero assoluto di venti atemporali apolidi.

E facendo nolentemente sfoggio di sospensioni trovate, si può frequentare l'assenza di derive piagnone dove il ricordo traditore non fa trippa: ricordatevi che dovete VIVERE! Vivere è agere, e il satanuccio Carmelo (Bene) ce lo dice chiaro e tondo che siamo dei moralisti di comodo se continuiamo a giocare "vivendo" il suo gioco.

L'accompagno al depennamento financo dell'attimo della catarsi ci sballotta in zone inaspettate sciogliendoci di quel giusto che ci compete, finalmente. E il regalo più grande è che con tutto questo perenne cimitero, le tombe scoperchiate dal medium (Porto) Franco epurano l'horror vacui della morte, frammentandolo in un ridicolo svogliato e tranquillizzandoci che "comunque vada sarà un successo".

Qualsiasi evoluzione passa dalle nostre putrefazioni. Mica poco...

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