MEANDRI – WORKIN’ LABEL 2022
FRANCO CHIRIVI’
di MICHELE CUPPONE
Se esiste un musicista inconsapevole del proprio talento, in quanto educato alla scuola della discrezione, dell’ascolto, del modo di intendere la musica in senso collettivo, scevro da qualsivoglia egocentrismo, un fuoriclasse del gregariato, questi è Franco Chirivì, chitarrista salentino al secondo progetto solista. Misura ed essenzialità ne hanno, da sempre, contraddistinto il tratto. Che non muta neppure quando offre a se stesso l’opportunità di occupare la scena nella sua totalità, leader di un progetto denotante una maturità non comune. Giudizio già espresso a proposito del precedente Nas Cordas (2019 – Dodicilune) e oggi ribadito nella recente uscita Meandri (2022 – Workin’ Label) Pur avendo a totale disposizione il tempo di un album e lo spazio di un’intera tela da riempire di colori, Chirivì non eccede in pennellate, ma usa il linguaggio di quei pittori che lasciano nel dipinto la nuance della tela medesima, stimolando la curiosità dei critici che si arrovellano per decodificare un recondito messaggio, talora inesistente. Resiste alla tentazione di ipertrofiche performances e, in cambio, opta per la strada più impervia, inaccessibile ai più, incapaci di smuovere i moti dell’anima di chi alla Musica si accosta in punta di piedi, con devozione. Il chitarrista salentino, talora ricorrendo ad un sapiente e dosato gioco di sovraincisioni (molto interessante il ricorso, in più brani, al basso fretless), duetta sovente con se stesso, affidando ad una voce messaggi ora crepuscolari ora briosi, che attraversa mediante le suadenti incursioni dell’altra. Il risultato è come sempre brillante, il fraseggio è puntuale, tutto appare simmetrico, bilanciato, al punto da sorprendere perfino Mike Stern, totem della sei corde, il quale, nelle note di copertina di Nas Cordas, riservò a Chirivì un sincero e sentito apprezzamento.
Dopo quel sincero omaggio ai giganti della musica brasiliana, oggi il chitarrista salentino torna con un portfolio differente, una nuova tavolozza di colori che passa dai toni brillanti di una danza carioca a note più blue, quando non intimistiche e struggenti, già suggerite da (cant)autori i quali avevano affidato alla parola il difficile compito di sedurre l’immaginario dell’ascoltatore. Chirivì vi si accosta con rispetto e devozione, rivelando di aver appreso perfettamente l’insegnamento principale per un musicista: ciò che conta è suscitare emozione, non dimostrare. E il chitarrista salentino - tale precetto - lo conosce bene, per averlo metabolizzato e interiorizzato nella forma migliore. Sotto l’influsso di una tecnica strumentistica sviluppatasi abbeverandosi alle fonti di Bill Frisell e Jim Hall, Pat Metheny e George Benson, Guinga e Toninho Horta, Vinicius Cantuaria e John Scofield, Romero Lubambo e Ricardo Silveira, i brani risultano permeati, in modo netto, da “quel” patrimonio genetico, da un DNA in cui, accanto agli influssi d’oltreoceano, ne compaiono alcuni di evidente matrice mediterranea. Senza che mai vengano offerte pedisseque letture.
Chitarra classica e chitarra jazz sono assolute protagoniste del lavoro di Chirivì, ben incastonate in contesti e formazioni mutevoli, in cui militano affermati musicisti dell’area salentina, con i quali il leader crea un perfetto interplay. La mission è valorizzare le sfumature, le infinite astratte possibilità delle sei corde, nel segno della qualità dei contenuti.
Il bagliore della Lagoa Rodrigo de Freitas, che già illuminava la cover di Nas Cordas, brilla nella ritmica di Rio Dance, la melodia a districarsi tra passaggi talora gioiosi, talaltra melanconici, in perfetto bossa style. E’ lo stato d’animo, ansioso e fiducioso, dei tifosi che si recano al Maracanà fasciati nelle loro camisetas, a recitare l’orazione del futebol. Le incursioni percussive di Antonio Valzano e il caldo drumming di Alessio Borgia, puntuali nello scandire i ritmi, lo accompagnano all’ensaio di una escola de samba, dove c’è un mestre da bateria a menare le danze. Così Chirivì celebra la bellezza mozzafiato della cidade maravilhosa, rendendo omaggio personale ad un “luogo” che incarna un ideale, un concetto, un modo di essere, ancor prima che un agglomerato di persone, un “popolo che danza per le strade”. I bytes diminuiscono sensibilmente in New River, brano intimistico e di grande atmosfera, impreziosito da una sezione ritmica differente, Michele Colaci al contrabbasso e Dario Congedo alla batteria. Il fraseggio di Chirivì si fa delicato, aereo, elegante nella sua ricercatezza, strizzando l’occhio ai maestri nordamericani, pietre angolari della formazione dell’artista. Il sax di Emanuele Coluccia si integra alla perfezione in questa atmosfera quasi rarefatta, da non turbare, come auspicherebbe un cartellino appeso fuori da una camera d’albergo. Ma la sfida più impegnativa per Chirivì è costituita dall’incontro con i classici del panorama musicale italiano, veri e propri totem che il chitarrista affronta con riverenza, non senza lasciare il proprio marchio di fabbrica. Il risultato è una Canzone di Marinella “compostamente scomposta” in 4/4 e nobilitata dal contrabbasso di Marco Bardoscia, in perfetta simbiosi con le spazzole di un sempre discreto Alessio Borgia. La cupa scansione ritmica marca l’incedere di questa “storia vera”, i cui toni tragici vengono enfatizzati dal sussurro evocativo e partecipe di Chirivì, una voice-over che racconta senza parole. Saggiamente, per non urtare la suscettibilità di chi non concepisce interpretazioni diverse dall’incomparabile voce di De Andrè. L’acustica, di cui il salentino è maestro, trova qui la definitiva consacrazione. Il leggiadro volo di una Butterfly ripropone il felice dialogo con il soprano di Coluccia (che del brano è coautore) e volteggia con disinvoltura sulle elegantissime trame armoniche intessute dalla chitarra di Chirivì, qui alle prese anche con il freetless bass. Suoni che si intrecciano come ossimoriche volute, tese verso l’alto, senza rinunciare alla loro innata profondità, al loro spessore. Bluesotto ricompone il trio con Colaci e Borgia, e – per chi conosce Franco Chirivì e la sua innata passione per i giochi di parole – può essere inteso come un omaggio al grande Franco Cerri (che di quei calembour era maestro assoluto) e alla più celebre, assonante composizione di Toots Thielemans. I musicisti danno ampia dimostrazione della loro poliedricità, al servizio di un gusto raffinatissimo. Assai interessante la rilettura del “classico dei classici”, quell’O Sole Mio qui estraneo alla abusata triade, eminentemente salentina, di cui fanno parte “lu mare e lu jentu”. Il tocco si fa sempre più mediterraneo, limpido, si scorge chiaramente Napoli, ma anche attraverso una lente ispanica. Nessuna indulgenza o abbandono al virtuosismo. Per il suono di Chirivì non serve. Non è funzionale. A Chirivì non serve. Non ha nulla da dimostrare. Scale, accordi, cellule armoniche, progressioni sono già state da tempo introiettate. Distant Clouds è il pezzo più accattivante e smooth dell’intero lavoro, una ritmica soul-jazz ad accompagnare il fraseggio mai banale del leader, autentico Signore della chitarra semiacustica, al cui credo è devoto, nel nome di Wes e Benson. Le nuvole si diradano, l’atmosfera è frizzante, il barman agita lo shaker, la notte sarà indimenticabile. Chirivì, sembra voler allontanare (oltre che le nuvole) anche le ansie e gli affanni di chi ascolta, affiancando all’amato fretless il serrato timing di un ispiratissimo Alessandro Monteduro alle percussioni e il sapiente drumming di Borgia, mentre Emanuele Coluccia si siede al pianoforte assicurando al gruppo un necessario, quanto elegante, supporto armonico. La title-track Meandri rappresenta un punto di incontro tra le influenze di Chirivì, quella perfetta intersezione tra le due spirali dell’ipotetico DNA illustrato in copertina. Mai come in questo caso le due Americhe sono state così vicine al Mediterraneo, il viaggio abbraccia l’intero Occidente e lo unisce in modo definitivo, come nessuna diplomazia riuscirebbe a fare, in un ideale triangolo Berklee College-Brasile-Lecce. Coluccia apre il sipario al pianoforte, lasciando la scena a Chirivì e alla sua ricca sintassi, stilisticamente ineccepibile. Contrappunto ritmico al contrabbasso di Michele Colaci è qui la batteria di Alex Semprevivo, a nobilitare quello che forse può considerarsi il vero brano-manifesto della cifra artistica di Chirivì. La chiusura dell’album è riservata ad una personale rilettura di Una Lunga Storia d’Amore. La mancanza del testo, nell’esecuzione strumentale di Chirivì, avrebbe potuto costituire un limite per il brano, ma il profondo rispetto per la struttura armonica e per la linea melodica, contemperate dal profondo gusto del chitarrista hanno conferito un mood del tutto conciliabile con il testo di Gino Paoli, per quanto esse abbiano fornito la base su cui la vivacità di Dario Congedo funge da eccellente stimolo per congegnare una composizione più briosa rispetto all’originale. E’ il saluto scelto da Chirivì per accomiatarsi, sempre in modo elegante, discreto. Esattamente come aveva cominciato.
Musica di qualità, (“mistura fina” direbbero in Brasile) senza spazio per sirene commerciali. Solo emergenza di raccontare al mondo storie di bellezza nascosta tra le pieghe di sei corde.
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