"I quattrocento colpi" (1959) è il primo lungometraggio del critico cinematografico François Truffaut, passato dalle acute recensioni sui "Cahiers du cinema" del suo mentore André Bazin - morto in quello stesso anno - alla macchina da presa. Assieme ai coevi lavori di Godard, Chabrol, Rohmer e Rivette avrebbe dato il via a quella che, con sintesi felice quanto frettolosa, sarebbe stata ribattezzate "nouvelle vague" del cinema francese.
Che rispetto al cinema francese si trattasse di un linguaggio cinematografico "nuovo" può senz'altro essere, ma non interessa troppo in questa sede. Che il linguaggio fosse nuovo in assoluto, e consumasse, almeno in Truffaut, una rottura integrale rispetto alla tradizione, non sembra altrettanto, o quantomeno non certo nei termini più radicali ed eversivi del cinema di Jean Luc Godard; il debito verso la tradizione, soprattutto italiana, specie in rapporto a certe opere di Rossellini e De Sica, non è mai stato misconosciuto, ed in questo film affiora più che in ogni altro.
A ben guardare, l'esordio di Truffaut è uno sguardo verso il futuro gettato da un giovane-vecchio con i piedi ben saldi nel passato: che il giovane-vecchio sia il regista, come pure il protagonista di questo romanzo di formazione in celluloide, non deve stupire: basti richiamare la devozione filiale con cui il giovane protagonista del film, Antoine Doinel, crea un piccolo altarino domestico, con tanto di candele, all'immaginetta di Balzac, e lo sguardo con cui lo stesso ragazzo coglie l'immensità degli spazi aperti nell'ultima struggente scena del film sembrano tanto la sintesi della storia, quanto la sintesi della vita del ragazzo, e, per scoperto gioco autobiografico, dello stesso regista e della sua visione poetica della vita.
"I quattrocento colpi" si riduce, in buona sintesi, a questo: la rivisitazione dei tradizionali stilemi del romanzo del tardo ottocento e del primo novecento alla Hugo, alla Verne o alla Conrad, il racconto di una progressiva crescita che viene a coincidere con la graduale, e sofferta, liberazione dell'individuo dalle piccole catene che lo accompagnano dalla nascita e che ne opprimono la creatività, fino al gesto liberatorio finale del ragazzo che fugge dal riformatorio: gesto non nichilistico, non distruttivo, ma carico di un presagio ancor più profondo; la piena autonomia e libertà dell'individuo deve forse sopportare il prezzo dell'abbandono e della solitudine, e la corsa di Antoine verso la spiaggia ed il mare sconfinato costituisce tanto l'inizio di una libertà desiderata quanto la presa di conoscenza del dramma di cui essa è intrisa, lo sconforto intimo di ognuno nella realizzazione del proprio desiderio.
Truffaut come un regista, uno scrittore per immagini, fortemente calato nella tradizione, per certi versi condizionato da essa nell'impostazione del soggetto, nello svolgersi della trama e nella sua conclusione: Doinel non dista poi troppo dai ragazzi di Mark Twain, che scoprono il prezzo dell'età adulta assieme all'avventura, nell'avventura ed a causa dell'avventura stessa, quasi nel concepire la propria vita come un'avventura eterna. E' non è distante neppure dal nostro Gianburrasca o dal protagonista del fumetto francese Nicholas, seppur lontano dai toni farseschi di entrambi, nel momento in cui tenta comunque di mescolare la commedia al dramma della crescita. Se vogliamo, non è lontano neppure dal piccolo eroe del fumetto franco-belga Tin Tin, giovane-adulto proprio malgrado, che ha trova nell'avventura la stessa ragione del proprio esistere.
Eppure non si renderebbe giustizia a Truffaut se ci si limitasse a questo, cogliendo i legami con il passato senza valutare la modernità, tutt'ora perdurante, di questo film.
Modernità che va ricercata soprattutto nel "tocco" del regista, ancora acerbo ma già intuibile: giovandosi di un espressivo bianco e nero, che Truffaut considerava il vero colore del cinema, il mezzo espressivo per descrivere la realtà distaccandosi contemporaneamente da essa e dai suoi colori reali, il regista descrive tanto gli umili interni degli appartamenti di una Parigi piccolo borghese, i giri scale, i vicoli, i freddi e claustrofobici spazi delle aule scolastiche dove Antoine- François si trova costretto, quanto gli spazi esterni in cui l'individuo assapora le sue prime esperienze di libertà, come avviene nella suggestiva scena delle giostre, in cui Antoine (insieme a Truffaut stesso in fugace apparizione) gira all'interno di un cilindro di legno sino a perdere il senso della gravità e a librarsi nell'area, svincolato dalle forze che lo legano al terreno, al qui ed ora di un'infanzia difficile.
Modernità che, al di là della felice direzione degli attori e della splendida prova del piccolo Jean Pierre Leaud (destinato a divenire, negli anni, attore e gli stesso; ed attore-feticcio del proprio mentore/gemello Truffaut), va colta nel ritmo impresso alla storia, che fluisce rapida e secca quasi come le tavole di un fumetto francese.
Si sente talvolta dire che il cinema di Truffaut e della nouvelle vague ha impresso una forte carica realistica al cinema transalpino, recuperando un naturalismo ignoto alla maggioranza dei registi della generazione precedente: non credo però sia questo il principale merito del regista, che nel suo descrivere la vita per ellissi narrative non può mai essere, strutturalmente, dalla parte del "reale", ma lo rappresenta secondo la sua sensibilità.
Questo film non vuole essere necessariamente realistico, e forse neppure vero nel termine dei neorealisti o dei veristi ancor prima: vuole cogliere la vita nel suo crescere e nel suo fluire, con un linguaggio cinematografico altrettanto mobile e fluido, ed un montaggio che ci fa sempre essere fa sempre cogliere l'azione del protagonista nella sua forza espansiva, nella sua apertura al mondo ed al nuovo.
Un film che resta nella memoria come una mare visto per la prima volta, entusiasmante come il sabato in cui finisce la scuola nella mente di un dodicenne.
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