Per la sua seconda prova da regista, per certi versi una prova d'appello verso chi credeva che "I quattrocento colpi" fossero l'exploit isolato di un critico destinato ad entrare presto nei ranghi, Francois Truffaut scelse di cimentarsi con il cinema di genere, rileggendo il noir di matrice nordamericana e calandolo nelle brumose atmosfere della Parigi notturna.

La scelta cadde su un'anonima novella di David Goodis, dove si raccontavano le peripezie di uno scalcagnato pianista che, a causa di due fratelli delinquenti, si trovava coinvolto contro la propria volontà in vicende criminali di vario genere.

Può sorprendere che, dopo un esordio in cui si indulgeva nel biografismo ed in una visione poetica della vita, Truffaut si orientasse verso un genere narrativo e cinematografico così diverso: la sorpresa è solo apparente se si considerano due passioni che il regista non aveva mai nascosto in gioventù e nella sua precedente militanza come critico, la narrativa di genere, poliziesca in particolare, il cinema di Alfred Hitchcock, ammirato da Truffaut fino al punto di dedicargli, alcuni anni dopo, un approfondito libro-intervista.

La scelta aveva poi indubbi vantaggi: evitava di tornare sui temi del film d'esordio, tentando di dimostrare un eclettismo che gli stessi critici avrebbero potuto apprezzare, al più perdonando un eventuale passo falso dovuto al tentativo di staccarsi dal già visto; incontrava i gusti di un pubblico tendenzialmente benevolo verso il noir; sfruttava l'onda lunga dell'esordio di Godard, che, in "Fino all'ultimo respiro", si era a propria volta confrontato con il genere destrutturando le sue forme.

Non è dato sapere se in Truffaut, che aveva partecipato alla realizzazione di quel film, vi fosse anche l'ambizione di confrontarsi con Godard, dimostrando di sapere trattare il tema in maniera efficace tanto quanto l'amico-rivale, ma nulla esclude che "Tirate sul pianista" (1960) fosse una variazione su un tema caro agli autori della "nuova onda", rivendicando una certa paternità di quello stile.

Già dal titolo, ribaltamento di un motto da tradizione western, si intende come il film, pur radicato nel noir, abbia un sottofondo ironico: mentre nei film di genere il pianista è un personaggio di contorno, che tende ad ornare la scena ma anche a sparire da essa, in questo lavoro la situazione si ribalta, ed il personaggio che nel bistrot di periferia vuole passare inosservato a tutti, contando solo per la sua musica, per il suono e non per l'immagine, diviene il motore narrativo di tutta la vicenda, ed, al contempo, il soggetto su cui piovono ogni guaio e disgrazia possibili.

Dal punto di vista strutturale può non essere una novità, se si considera come proprio in Hitchcock personaggi secondari, in apparenza innocui, divenissero i protagonisti indiscussi del thrilling; l'originalità di "Tirate sul pianista" - ed anche in questo Truffaut si dimostra dentro e fuori la tradizione nello stesso istante - sta nel fatto che l'innocente nasconde a propria volta qualcosa, un passato da cui vuole volontariamente distaccarsi ed una colpa che non lo rende meno negativo dei tanti personaggi che gli ruotano attorno.

Il film ci svela, passo dopo passo e con un ricorso al flash-back, le ragioni della solitudine e della cupio dissolvi del protagonista, mostrandoci come alla base dell'autoesilio del talentuoso musicista dietro le quinte dell'anonima periferia delle metropoli ci siano la disillusione verso il mondo dell'arte, che un tempo lo vedeva promettente concertista frenato dal senso di inadeguatezza, ed un dramma sentimentale originato dalla sua incapacità di venire a patti con sé stesso e con la donna un tempo amata.

Sono temi anticipano, quasi come un'ouverture, molti dei film a venire di Truffaut, cosicché "Tirate sul pianista" può essere inteso, dopo l'autopresentazione de "I quattrocento colpi", come il vero esordio del regista francese, il suo primo reale tentativo di fare del cinema una professione, e non soltanto un manifesto programmatico ed un esperimento intellettuale.

Se inteso come un film d'esordio - ossia come il primo tentativo di dirigere qualcosa che non proviene dalla propria esperienza di vita, ma è la rivisitazione dell'esperienza di un altro - "Tirate sul pianista" rivela al contempo pregi e limiti, gli stessi che, a mio parere, Truffaut avrebbe evidenziato per diversi anni ancora.

I pregi del film sono tutti nel linguaggio di Truffaut: le ambientazioni e la fotografia sono quello che, in musica, potremmo definire la tonalità del pezzo; e non è dubbio che "Tirate sul pianista" si contraddistingua per continue variazioni di tono, dalla malinconia dell'inizio, alle scene più tese e concitate del coinvolgimento nel crimine, destinate a culminare in un omicidio, per tornare agli umori romantici e disperati assieme dell'appartamento del protagonista e dei suoi incontri fugaci con una prostituta, come (quasi) sempre dal cuore tenero.

Il tocco emotivo di Truffaut si sofferma in maniera decisa su quello che diventerà l'oggetto prediletto del suo cinema: le donne e l'amore, l'amore per la donna che sa amare, ciascuna a suo modo, ciascuna seguendo il suo destino. Almeno tre donne ruotano attorno al protagonista, di diversa estrazione, di differente aspetto, ognuna colta da attrici e regista nella propria dimensione più intima: dal punto di vista della donna - sempre caro a Truffaut - la storia del pianista può essere intesa come la storia di tre amori tentati e negati, infranti  e spezzati dalla vita.

A differenza di un Antonioni, mai amato, Truffaut non è il cantore degli amori non comunicati, del silenzio, quasi che l'assenza di vita consumi i sentimenti; al contrario, in questo film già si intuisce come sia la vita stessa a consumare uomini, donne ed amori, a far rivendicare, nello stesso momento, il bisogno della presenza e dell'assenza della persona cui si vuol bene, il bisogno di sedersi in ombra dietro un piano  e di un abbraccio.

  Dei difetti del film si può dire più in fretta: la sintesi de "I quattrocento colpi" sembra venuta improvvisamente meno, e talvolta il film sembra perdere di compattezza e sfilacciarsi, venendo meno anche all'esigenza di una concentrazione di luogo, tempo e spazi che faceva la fortuna di film del genere, come dimostrato dallo stesso Hitchcock, non troppo seguito da Truffaut nel lungo epilogo nella baita di montagna in cui il film si conclude. La stessa fusione di generi pare a tratti schematica, frammentando la narrazione nei diversi momenti della vita del protagonista, non riuscendo a riannodare le sottotrame in un unico ordito.

Il rischio, a tratti, può essere quello di disorientare, e la sensazione di fondo è che l'originario soggetto noir sia stato interpolato con digressioni poetiche poco coerenti con la materia trattata.

Detto questo, anche "Tirate sul pianista" è un film che non si dimentica: grazie alla caratterizzazione del "finto-francese" Charles Aznavour, che non a caso ha fatto del tono malinconico e del disin-canto la cifra riconoscitiva di una carriera, lo sguardo del protagonista di questo film, il suo lasciarsi andare, il suo rinunciare a vivere e l'accontentarsi dell'ombra e del dimesso, Truffaut ci regala un altro personaggio fondamentale.

Che, poi, lo sguardo di Aznavour ricordi, a tratti, quello di Antoine Doinel sarà pure casuale; e casuale sarà, forse, il tentativo del giovane regista di esorcizzare il terrore per il suo vero esordio con un film che di terrore tratta: il terrore di essere nulla dinnanzi all'arte, di non avere né voce né parole per soddisfare le attese verso sé stessi e le speranze degli altri.

Carico i commenti...  con calma