Esci dal nuovo film dei D’Innocenzo e ti sembra di essere uscito da una lampada abbronzante. I colori sono quelli. Verde rosso blu. Fiammanti.
La capa tosta di Elio Germano riflette tutta la luce accecante che di giorno gli batte in picchiata dal cielo. Di sera piange e ride. Di mattina scende le scale e trova la sua angoscia. Il film si alza e cammina, corre e prende il volo.
A metà visione ho iniziato a temere che si risolvesse con un 自殺, il che avrebbe reso la filmografia dei gemelli romani una specie di canzone dei Baustelle lunga quattro ore e mezza, che è la durata complessiva dei loro film ad oggi. Posso dire che forse non va come sembra.
Il finale va come sembra, e Fabio e Damiano ne sono consapevoli. È un benservito a tutti i coglionazzi che vanno al cinema credendosi intelligenti. A chi va al cinema per la trama, per il colpo di scena, a chi va al cinema per inserire il tassello nello spazio apposito che gli ha riservato.
Lasciarsi sorprendere dalla semplicità di una storia contorta raccontata senza riserve. E senza sconti. Senza intellettualismi, solo cuore e tenerezza. L’America Latina è una Latina più distante ed estranea dell’America? Okay, ma fidati che non sei intelligente a scriverlo nel Letterboxd. E nemmeno a pensare che sei deluso. La sorpresa, i D’Innocenzo, te l’hanno regalata: è la tua triste banalità. Il cinema invece è messo in campo. Il pianoforte fraseggia, il mondo brucia.
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