Probabilmente giudicarlo un capolavoro é un po´eccessivo. Ma poco ci manca.

Paolo e Vittorio Taviani, demiurghi raffinati e sapienti, sfornano un opera con tante sfaccettature registiche, lontani dalle grida hollywoodiane e dalla caciara della commedia da cinepanettone, come non mai.

"Cesare Deve Morire"  nasce nel 2012 ha ricevuto diversi premi, quindi parrebbe scontato incensarlo dall´inizio alla fine.

Il mio intento é sfornare una critica sincera e personale, senza lasciarmi influenzare dal detto e dallo scritto dai critici di classe e spessore.

Apparentemente si tratta di un documentario girato in un carcere dove i detenuti sperano di distogliersi dalla monotonia della loro pena candidandosi per il progetto teatrale ispirato all´opera di Shakespeare "Giulio Cesare". Il film parte con la parte finale della messa in scena, pare che il pubblico abbia gradito. Le inquadrature sono acerbe ed incerte, a colori.

Poi i Taviani fanno un passo indietro. 6 mesi prima, i provini, le selezioni, le speranze di recitare di chi si candida e l´uso del bianco e nero. Stavolta la regia é sicura, pulita, i primi piani sono toccanti ed innalzano la parte drammatica della pellicola.

Dal coinvolgimento degli attori selezionati parte un film che nella prima mezzora é nodoso, lento, poco coinvolgente.

Poi si scopre che la passione prende spazio nei tempi dei galeotti, che si dedicano con anima e corpo al progetto.

Immedesimazione totale, e noi spettatori osserviamo questi criminali e non li vediamo piú come figure che han perso la libertá.

Nel loro spazio artistico si sono liberati. In tutti i sensi.

E qui il colpo di genio: a spezzare il film, quasi in due parti, due detenuti escono dalla parte. Tornano ad essere se stessi, devono regolare qualcosa tra di loro, a noi non é dato sapere chi, cosa, quando e perché. Poi il tutto si ricompone, perché quello che conta é portare a termine la preparazione, ne sono convinti tutti.

Il film si impenna in un crescendo emozionale, mai gridato, che vede coinvolti sempre di piú gli attori nel dramma dell´opera, i secondini che aspettano pazientemente che i detenuti concludano le prove nel cortile, durante l´ora d´aria che si dilata inevitabilmente, gli altri carcerati che, seppur non inseriti nel cast sono coinvolti e gridano da dietro le sbarre, immedesimanti e coinvolti, partecipando con ardore. Rebibbia si anima di passione e teatralitá, pare non risparmiando niente e nessuno e il carcere stesso diventa un teatro involontatrio.

Il messaggio é molto forte, si intuisce, ma viene generosamente sottolineato nel finale quando un detenuto, appena rientrato in cella dice "da quando ho conosciuto l´arte questa cella é diventata una prigione".

La forza dei Taviani, per lanciare il messaggio estremo, é stata di scegliere un ambiente dove la privazione della libertá é portata all´estremo. Ed é con questo estremo che dimostrano la forza del loro messaggio. Rebibbia, come Shakespeare, sono solo pretesti. La vera questione é "liberarsi" esprimendosi, esprimersi e liberarsi attraverso l´arte, qualunque forma essa sia. 

Bravi davvero tutti.
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