Ogni tanto capita il miracolo. Una leggenda dimenticata viene rapita dal cono d'ombra in cui i casi della vita l'hanno relegata, e trova un' inaspettata vetrina attraverso le nuove icone della cultura contemporanea. E' il caso di Fred Neil: primattore del folk boom nel Greenwich Village (Dylan, Crosby e Stills erano discepoli dichiarati), pioniere del cantautorato psichedelico (Tim Buckley e Paul Kantner docent), fino all' ostinato auto-esilio in Florida all'inizio degli anni Settanta. Il celebre serial "I Sopranos" lo ha recentemente omaggiato in una toccante e cruda scena, avente come colonna sonora l'inarrivabile volo a pelo d'acqua di "The Dolphins". Già, gli straordinari animali al cui studio e alla cui salvaguardia l'autore di "Everybody's talking" avrebbe dedicato gli ultimi 30 anni della sua vita.

"Bleecker & MacDougal" è il debutto solista di Fred, pubblicato nel 1965 dopo anni d'apprendistato nel Brill Building, un paio di pezzi vergati per Buddy Holly e Roy Orbison e un interessante album in coppia con Vince Martin. La copertina dice tanto su Neil, qui immortalato all'incrocio di Bleecker Street, come all'ingresso di un giardino di incanti nel cuore di quel Village vivacizzato dai suoi concerti (in alcuni dei quali supportato dal non ancora famoso menestrello di Duluth). E' un timido ragazzo del sud arrivato nella metropoli dalle mille luci, dai cui vizi - in particolare tossici - si farà presto abbagliare, trasportando il proprio cammino in un canzoniere tuttora di rara intensità e bellezza. E si appresta a timbrare uno dei debutti più influenti di tutti i tempi. Accompagnato da Peter Childs (chitarra e dobro), Douglas Hatelid (basso) e dall'armonica della futura star John Sebastian, Neil ridefinisce con la sua chitarra acustica e il vocione baritonale il classico cesello folk. Innescando in esso accenni gospel, ritmicità alla Cole Porter e la disperazione blues, mai cantata in maniera così vivida da un bianco prima di lui, e avviando quelle divagazioni jazz e lisergiche che culmineranno nell'omonimo capolavoro del 1967.

Abbondano gli episodi capitali tra questi solchi. Dai momenti più scoppiettanti, come la bislacca "Sweet Mama" o la pugnace title track, a quelli sintonizzati sul folk ormai in procinto di elettrificarsi, come la beffarda  "Candy Man",  gli echi del Chicago blues nella rabbiosa confessione di "Country Boy" o quel  "Mississippi train" che sbuffa dentro "Travellin' shoes" con passo spedito verso il Delta, correndo parallelo alla Highway 61 dylaniana.

E poi le ballate che hanno fatto epoca per generazioni di cantautori, manifesti di frustrazione urbana cantata con piglio dolente e maledetto: si prenda la sublime "Blues on the ceiling",  con versi quali "Up to my neck in misery /I'll never get out of these blues alive" o "Blues keep on fooling /With my weary head /Cocaine couldn't numb the pain /I'd be better off dead". Per non parlare di "Yonder comes the blues " e "Handful of gimme", odissee nei gironi metropolitani in cui anche la penombra brilla di seduzioni, inganni e peccati.

Infine le perle in cui il mood da cosmico abbandono si apre a spiragli sognanti e sconfinati, in seguito battuti dal più celebre dei suoi adepti, Tim Buckley. La vellutata "A little bit of rain" e il blues dilatato di "Gone again" valgono oro,  senza dimenticare la "The other side of this life" che fungerà da base per incendiarie divagazioni dal vivo targate Jefferson Airplane. E soprattutto una stratosferica versione di "The water is wide", in cui punte di spazialità jazz e umori acidi dipingono un'atmosfera tramutata in fuliggine, col crooning di Neil come unico barbaglio sull'acqua.

Non è un caso se Fred Neil a un certo punto si stancò di quelle luci, e decise di tornare in Florida. Per ascoltare il canto dei delfini in una quiete che gli restituisse la purezza dell'anima, impedendogli di venire risucchiato da un vortice come l'amico Tim Hardin. A volte non ti resta che la strada di ieri: non è affatto accidentata, e ti conduce verso l'altro lato di questa vita.

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