I Free sono un gruppo da “one hit wonder”, o meglio come tale sono ricordati, grazie all’immortale riff di “All right now”, datata 1970 e usata in innumerevoli spot pubblicitari ed inclusa in un numero altrettanto elevato di raccolte di rock, hard-rock, rock da discoteca, blues- rock ecc.

Insomma, con un solo pezzo hanno messo su un discreto conto in banca. Ma se di solito dietro ad un gruppo da (seppur milionaria) toccata e fuga c’è solo fuffa, in questo caso solo il tempo ha tolto gli onori che questo ottimo album merita: intendiamoci, non siamo davanti ad un capolavoro, però…

I quattro dei Free, all’epoca della loro fondazione, nel ’68, a stento facevano insieme 72 anni: il più giovane era il sedicenne Andy Fraser, bassista e colonna portante del sound del gruppo insieme alla chitarra di Paul Kossoff; i più vecchi erano il batterista Simon Kirke e il cantante Paul Rodgers, autore di testi su donne che spaccano il cuore e sul male di vivere, roba da bluesman del delta.
Fanno cover di pezzi blues più che altro, e quello che salta all’orecchio è la voce perennemente rauca, teatrale nel suo imitare gli stilemi del blues intrecciato col soul, di Rodgers, oltre al prodigioso uso che fa del basso il giovanissimo Fraser, con un pulsare e con fraseggi che non seguono pedissequamente gli accordi della chitarra: insomma, il rock si mischia col groove del soul nero, aggiungendo spessore alla granitica batteria di Kirke e alla chitarra fluida e di classe di Kossoff, uno di quelli che crede che una nota al posto giusto valga più di sette suonate coi denti a velocità stratosferica.

Si fanno conoscere per i live, più che per i primi due album, finchè nel ’70 non danno alle stampe proprio questo “Fire and water”, acme della loro breve carriera sia dal punto di vista artistico che da quello delle vendite. L’apertura è della title-track, con un fraseggio di chitarra evocativo che conduce ad un giro di accordi logico, quasi consequenziale e necessario nel suo incedere, qui accompagnato dal basso: Rodgers racconta con tono quasi monocorde di una donna crudele, il cui amore sparisce presto come è arrivato, mentre Kossoff compone uno splendido assolo sovraincidendo tre chitarre, la prima che tiene per diversi secondi note alte, mentre la seconda e la terza ricamano e arpeggiano sovrapponendosi con fare quasi psichedelico. Chiude il tutto un cenno di solo di batteria.
I Free sono definibili come uno tra i gruppi che ha tentato una vera contaminazione del rock con altri generi: si prendano per esempio gli interventi quasi reggae nel ritornello di “Oh I wept”, ripresi nell’incedere della bellissima “Remember”, pezzo solare che parla (altro topos blues) dei giorni andati della gioventù, con un assolo di chitarra da non perdere, su base calda e quasi ballabile del basso di Fraser. “Heavy load” è un altro esempio di come questo non sia un gruppo rock comune: intro di piano quasi dissonante, che vira nel dark, con Fraser che batte metronomico sulle sue corde, la voce sfatta di Rodgers, note che sembrano perdersi in una oscurità senza uscita, il cui unico spiraglio è dato da un paio di cenni distorti di una chitarra comunque intossicata.

Mr. Big” è l’ennesimo colpo di genio dell’album: i primi due minuti contano poco, un altro giro rock, ciò che conta è la chitarra che comincia ad elevarsi intorno ai due e venti, che preannuncia qualcosa, come un vagone che sale sul punto più alto delle montagne russe. Poi, la discesa: un lungo, vibrante e sfibrante assolo di basso, con Fraser che si arrampica, scava su note sempre più baritone, sfruttando in ogni modo conosciuto la scala di mi, con la chitarra che (notare come si invertono i ruoli) è chiamata ad un ruolo puramente ritmico. Roba da leccarsi i baffi.Don’ t say you love me” è la conferma della regola che in ogni album hard rock è necessario un lento, e che lento: un perfetto blues in si minore con andamento soul, e qui si vedono le reali capacità di vocalist di Rodgers, che fa quasi il crooner; la struttura è grezza, ma il coinvolgimento è totale e l’ atmosfera è perfetta. Infine, il pezzo croce e delizia della band, “All right now”, riff in La arcinoto, assoli puliti di Kossoff, basso in gran rispolvero, drumming di Kirke che risponde perfettamente alle esigenze della canzone.

Capolavoro ? No, non direi, anche se la media complessiva è altissima: è semplicemente un ottimo album, godibilissimo a quasi quarant’anni dalla sua uscita, che propone una visione originale dell’hard rock, ante-litteram rispetto alle contaminazioni degli anni a venire; ed è un peccato che i Free non abbiamo continuato su questa strada: infatti, dopo la pubblicazione di un prescindibile live e di un discreto paio album, arriverà lo scioglimento nel ‘73. Kossoff muore nel ’76 con un ago in vena; Rodgers si è recentemente riciclato come frontman dei Queen riformati.

Ma questa è un’altra storia…

Carico i commenti...  con calma