Un pedofilo assassino è fra noi. Potrebbe essere chiunque. Un uomo apparentemente normale, poco appariscente e che passa inosservato, dalla vita tranquilla e monotona e che fa un lavoro comune. Magari lo conosciamo, abbiamo parlato o addirittura riso con lui e sembra una persona degna della massima fiducia e rispetto. Sarebbe assurdo ritenerlo capace di tali nefandezze.

Un Assassino è Fra Noi avrebbe dovuto essere il titolo di questo capolavoro dell'espressionismo tedesco di uno dei registi più all'avanguardia e innovativi, Fritz Lang, che per non infastidire il partito nazionalsocialista di Hitler in ascesa nel 1931, fu costretto a cambiare in M (M come Mörder, assassino), il Mostro di Düsseldorf. Il primo lungometraggio sonoro del geniale regista austriaco, poi emigrato negli USA, è di un'innovazione e attualità sorprendenti, assolutamente imprescindibili per lo sviluppo di un nuovo genere cinematografico: il thriller. E non solo per le tecniche di regia decisamente all'avanguardia per i tempi come l'uso frequente dei piani sequenza, la particolare fotografia dai chiaroscuri e dalle ombre inquietanti e l'introduzione del sonoro, ma altresì per gli argomenti affrontati e lo sviluppo della trama e dell'indagine poliziesca, che anticipano di moltissimi anni il "sottogenere" thriller più in voga degli ultimi due decenni: il "serial killer movie". In un epoca in cui la parola profiler aveva ancora un significato ignoto, "M, il Mostro di Düsseldorf", basato su un fatto reale, ci svela una sceneggiatura schietta, vivace e straripante freschezza e nonostante il soggetto del film sia morboso e terribilmente scomodo, non priva di un certo sottile umorismo. La parola pedofilo non viene tuttavia mai nominata, solo sottintesa.

La prima parte del film è improntata sulle indagini della polizia che dapprima se la prende invano con i soliti poveracci, prostitute e criminali di mezza tacca; poi un inquirente tenta di dare un volto psicologico all'assassino. In lui è riconoscibile un primo vago precursore dell'attuale detective profiler, che azzarda un timido ma efficace e preciso identikit psicologico e sociologico del killer e analizza le presunte indole e abitudini durante una riunione di poliziotti e autorità giudiziarie dove i cittadini vengono definiti pubblico, altro termine assolutamente inconsueto e moderno per l'epoca. Al terzo omicidio, nell'ambiente della malavita si crea il malumore per le false accuse e le brutali retate della polizia, gli affari vanno in rovina e la presenza di questo mostro non giova a nessuno di loro. Decidono allora di organizzarsi per poterlo catturare con maniere astute e poco ortodosse, in barba alle autorità competenti che indagano per conto proprio con meticolosità e scrupolo e soluzioni investigative senza precedenti ma con scarsi risultati; una novità ardita e sconveniente nel film di Lang, quella di mostrare dei brutali e rozzi malviventi più coraggiosi, efficienti e capaci della polizia. Quando Franz Becker, il mostro, viene catturato dopo non poche vicissitudini e momenti di Grande Cinema, viene portato in un sotterraneo davanti a una moltitudine di persone, fra tutti criminali, donne e anziani e terrorizzato con un processo sommario popolare, con tanto di democratico difensore d'ufficio. Da questo momento in poi il film di Lang manifesta tutto il potenziale sociologico, oltre che il messaggio fortemente anti pena capitale che il regista ha voluto mandare, parlando attraverso l'avvocato difensore che cera di convincere la giuria popolare di non ucciderlo e di consegnarlo alla polizia per un regolare processo. Becker, in una sconvolgente confessione, sfogherà tutta la sua mortificazione e rabbia impotente con la tragica consapevolezza di essere uno psicopatico e rivelerà il suo lato più umano e indifeso. La folla, inferocita e per nulla impietosita, deciderà di giustiziarlo proprio nel momento in cui irrompe la polizia che consegnerà il pedofilo assassino al giudice. "Tanto tutto questo non riporterà in vita quelle bambine", mormorerà una donna alla fine.

Le scene che molti registi specialisti del thriller prenderanno come paradigma sono molteplici e memorabili, come lo è il protagonista, l'attore ungherese mostro di bravura Peter Lorre, dall'espressione perversa e allucinata contrastante nel suo viso paffuto e fanciullesco e dagli occhietti espressivi e furbi. E' proprio la sua faccia che mi viene sempre in mente quando leggo La Mummia di Conan Doyle: Peter Lorre sarebbe stato perfetto per il ruolo dell'inquietante egittologo Edward Bellingham. La magistrale e intensissima interpretazione di Franz Becker imprigionò Lorre in un certo clichè, immortalandolo per sempre in questo personaggio terrificante ma disperato nella sua spaventosa e immensa solitudine. Indimenticabile quando si specchia distorcendosi i lineamenti del viso per somigliare anche fisicamente a un mostro, l'inquadratura della sua ombra in primo piano mentre insidia una bambina e quella sul suo viso sgomento riflessa su una vetrina, quando la sua giovanissima preda gli fa notare che dietro al cappotto ha il marchio infamante M, scrittogli col gesso con un astuto stratagemma da un ladruncolo per poter farlo identificare meglio dai complici.

M è un'opera seminale e scandalosa di importanza fondamentale che porta nuova sostanza e vigore all'espressionismo tedesco, prendendo le sue emotive e suggestive soluzioni stilistiche esasperate e adattandole perfettamente a un sonoro di effetto strabiliante per l'epoca: il motivo fischiettato da Franz Becker, ne è l'esempio più esaltante. La sua straordinaria modernità non è da ricercarsi solo nelle scelte stilistiche e di direzione artistica ma pure nella sua similitudine con le vicende di cronaca nera odierna che ci coinvolgono tutti inevitabilmente in discussioni problematiche e delicate come la questione pedofilia; e ci accorgiamo che oggi come allora le diverse posizioni sul tema non sono affatto cambiate, restano quelle di sempre.

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